La lista dei paesi sicuri viene aggiornata «sulla base di pertinenti informazioni». Insomma, l'elenco deve essere un solido punto di partenza, quasi una bussola, per valutare le mille problematiche relative a migranti, richiedenti asilo e stranieri arrivati in qualche modo nel nostro Paese. La sesta sezione della Cassazione fissa alcuni paletti pesantissimi a proposito di un tema incandescente che ha innescato un braccio di ferro fra magistratura e esecutivo.
Anche il nuovo decreto legge, che corregge l'elenco depennando tre paesi, è stato contestato da alcuni magistrati che l'hanno disapplicato, vedi Catania, o spedito all'attenzione della Corte di giustizia per uno screening rigoroso della norma.
Nelle scorse settimane però la Cassazione, ancora alle prese con il vecchio decreto ministeriale, pone alcuni vincoli all'azione della magistratura e lo fa in un verdetto fin qui inedito: «L'inserimento del paese d'origine del richiedente nell'elenco dei paesi sicuri - scrive la Suprema corte che riprende un principio affermato dalle Sezioni unite civili della Cassazione - produce l'effetto di far gravare sul ricorrente l'onere di allegazione rinforzata in ordine alle ragioni soggettive e oggettive per le quali invece il paese non può considerarsi sicuro».
La lista è la griglia con cui confrontare la propria sensibilità di magistrato e questo porta a capovolgere la responsabilità della prova: in concreto il magistrato o l'avvocato sono tenuti a spiegare perché in quei casi abbiano deciso o suggerito di non seguire le indicazioni che arrivano dalla Farnesina e da Palazzo Chigi. Semplificando, un conto è tenere come parametro l'elenco che arriva dall'esecutivo, altra cosa è prenderlo a bersaglio fisso perché considerato incompatibile con la normativa europea.
La sesta sezione della Cassazione non solo non sconfessa a priori il decreto ma semmai sprona le parti a criticarlo, se si ritiene, in modo circoscritto e puntuale.
Il caso in questione, certo delicato, è quello di un marocchino per cui le autorità di Rabat hanno chiesto l'estradizione. L'uomo, D.F., è accusato del reato, odioso, di «organizzazione di immigrazione clandestina». Ma la corte d'appello di Brescia ha demolito il decreto e detto no all'estradizione. Il presunto trafficante resta in Italia perché il Marocco non è sicuro, anche se è inserito in quell'elenco.
Ma i giudici di Brescia hanno smontato quel provvedimento a ragione veduta? A quanto pare no e la Cassazione lo chiarisce. La corte d'appello avrebbe dovuto motivare in modo esauriente perché puntava il dito contro il Marocco. Ma questo non è avvenuto. «Nel caso in esame - osserva la Suprema corte - non sarebbe stato irrilevante ai fini della decisione la valutazione del decreto del 7 maggio 2024 con il quale il Governo italiano ha aggiornato la lista dei paesi sicuri per richiedenti protezione internazionale, lista nella quale appunto è stato inserito il Marocco».
Se le parole hanno un senso, questa valutazione non è stata fatta.
La norma, oggi sostituita dal recentissimo decreto legge, è stata in qualche modo saltata come un ostacolo e non studiata nei dettagli. Nella babele delle pronunce di questi giorni, la Cassazione sembra riconsegnare un pezzo di sovranità, quella sulle politiche migratorie, al governo. Per carità, i giudici possono sempre scrivere un verdetto di segno opposto, ma devono farlo con motivazioni serrate, pensate apposta per quella vicenda: «Sarebbe stato onere della corte d'appello verificare l'esistenza di notizie affidabili, provenienti da fonti qualificate, per accertare, al momento della decisione, la sussistenza di ragioni oggettive o soggettive per ritenere perdurante il pericolo di sottoposizione di D.F.
a un processo simulato onde perseguirlo per le opinioni politiche espresse».Certo, la decisione del 27 settembre scorso arriva prima della sentenza europea che il 4 ottobre ha cambiato in parte l'approccio al tema, ma il criterio di quel verdetto resta valido.
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