La maledizione di sopravvivere ai figli

Nel nostro universo morale fragile e approssimativo lo spazio per le deroghe è molto ampio. Siamo indulgenti con noi stessi, di un’indulgenza sorda e profonda, capace di insinuarsi anche in un carattere apparentemente rigoroso. Le scale di valori prefabbricate e adattate a temperamenti e situazioni stabiliscono comode distinzioni, ad esempio, tra «colpe gravi» e «colpe non gravi», secondo un modello che solo superficialmente si collega all’altra distinzione, cristiana, tra «peccati mortali» e «peccati veniali». Noi infatti siamo pieni di scappatoie e distinguo di ogni (...)
(...) genere, il nostro linguaggio comune è pieno di espressioni tipo «che male c’è?», oppure «non ho ammazzato nessuno». Chiamiamo «peccatuccio» ogni colpa che siamo ben disposti a considerare indegna di figurare nel nostro ordine morale, dal mangiare un cioccolatino di troppo al tradire la moglie una tantum, e le pezze giustificative non mancano mai (in fondo lo dicono anche i magazine femminili che un piccolo tradimento aggiunge sale al rapporto di coppia, no?).
Esiste però un caso in cui l’ordine morale che un uomo pensa di poter manipolare come crede lancia alla coscienza il suo segnale d’allarme, il suo sos. Succede quando un nostro piccole errore, una nostra trascurabile disattenzione, un nostro peccatuccio procurano un danno grave ad altri. Allora d’un tratto ci scopriamo stupidi e disonesti. Se, poi, il danno provocato è la morte e la persona danneggiata è l’ultima che si sarebbe voluta danneggiare, cioè un proprio figlio, la disperazione si fa nera come la pece, e gli uomini bonari e indulgenti che eravamo stati fino a un giorno, un’ora, un minuto prima sono adesso uomini cupi, che non solo non potranno mai perdonare se stessi di quella disattenzione - una fra le mille, non diversa da tante altre ma a differenza delle altre letale e definitiva - non soltanto questo, ma non potranno più, nella loro piccola testa, concepire la possibilità stessa del perdono.
I padri (parlo soprattutto dei padri, come me) che in questi giorni hanno perso i figli in incidenti provocati da loro, e che si trovano adesso nella difficilissima condizione di sopravvissuti a quella perdita insopportabile conoscono tutta l’ipocrita precarietà delle nostre impalcature morali, e si domandano per quale crudele destino non sia stata data anche a loro la sorte migliore in questi casi, che è quella di morire.
Eccoli dunque, devastati dalla perdita delle persone più care con l’aggiunta di un altro dolore, più piccolo ma ugualmente terribile: la certezza, lucida come uno specchio, di essere la causa di quella perdita.
Come diventa intollerabilmente lucida la coscienza umana, fino a quel momento ben rintanata nel suo mondo opaco di valori mobili! E la coscienza ci dice che vivere è impossibile. Non solo a causa di quello che è accaduto, ma sempre, poiché la semplice possibilità che un simile orrore accada è sufficiente a farci dire che la vita - la mia, la tua, quella di tutti - non è che una via a fondo cieco.
Eppure il cristianesimo, al quale credevamo di ispirarci nella nostra stolta distinzione tra colpe gravi e colpe trascurabili, ci aveva messo e ci mette sull’avviso: per essere assolti anche da un peccato veniale, i cristiani devono esprimere pieno pentimento unito al proposito fermo di non peccare più. Insomma, un peccato veniale non è una cosetta da nulla, come del resto ricorda il Vangelo, quando dice che renderemo conto di ogni azione, anche la più piccola.
Ma proprio in questa frase, così dura, e così vera per chiunque credente o no, c’è la radice della speranza. Cosa significa, infatti, che renderemo conto? Significa che nulla di ciò che abbiamo è nostro, che la nostra vita è in prestito e che ogni singolo bene a noi donato (compresa l’intelligenza, la bontà, il coraggio, il senso del bello e della giustizia) ci viene da qualcun altro.
Renderete conto! Ma il senso di queste parole non è diverso da quello di altre, che ci ricordano che anche i capelli del nostro capo sono contati, o quelle che ci fanno osservare la bellezza dei gigli del campo, che nulla hanno fatto per avere un tale splendore.
Renderete conto! Sono parole piene di una dura, realista ma invincibile misericordia, da cui anche l’uomo colpito dalla sventura più grande può riimparare a sperare. Noi renderemo conto perché renderemo, restituiremo quello che non è nostro. E niente è meno nostro di un figlio. Solo questa consapevolezza di essere totalmente, originariamente poveri e bisognosi può aiutarci a vivere dopo una perdita così terribile. Noi, la nostra automobile, i nostri figli, la nostra casa, i capelli del nostro capo: niente di tutto questo ci appartiene.


Allora erompe da noi quel grido, che è la cosa più umana che ci sia, più umano perfino dell’essere padri o madri: vieni Signore! Vieni con la tua carezza, con il tuo amore, a rivestire, come tanti gigli, questi nostri poveri cuori!

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