Maledizione sui ladri di reperti: restituite le pietre della sfortuna

Chi tocca le pietre dell’antica Pompei, muore. Beh, «muore» forse è troppo, ma un po’ di scarogna gli resta attaccata di sicuro. Se poi uno qualcosina se la porta addirittura a casa, è meglio che si prepari alle peggiori sventure. Sarà per questo che gran parte dei «topi archeologici» (nel senso di ladruncoli travestiti da turisti, o viceversa) stanno restituendo, anonimamente, il maltolto. La notizia - sfiziosa assai - campeggiava ieri sulla prima pagina de Il Mattino, lo storico quotidiano di Napoli.
Suggestionati magari da film come «La sfinge maledetta», «La persecuzione del Faraone», «Il ritorno della mummia assassina», «Il geroglifico infernale», Pompei si trova ora in balìa della superstizione. Il titolo del Mattino è scaramanticamente ineccepibile: «La maledizione dei reperti rubati» e poi «Pioggia di pacchi per restituire gli oggetti trafugati con tanto di scuse».
L’inviato del giornale ha messo le mani - toccando ferro - su qualcosa di grosso: «(...) La vulgata popolare vuole che chiunque porti via dagli Scavi di Pompei una pietruzza qualsiasi, anche se è di infimo valore, venga poi colpito da infinite sciagure. Non sarà vero, ma ci credono ancora. E in tanti».
La conseguenza della leggenda è degna di una commedia di Eduardo: «Alla Soprintendenza ritornano decine di pezzi preziosi trafugati, accompagnati da lettere di scuse...». Un moto, quasi soprannaturale, di resipiscenza (parte)nopea e (parte)internazionale visto che molti dei plichi restituiti dai «pentiti» provengono dalle parti più disparate del mondo. Del resto - quello pompeiano - è tra i Parchi archeologici più visitati al mondo: primato inversamente proporzionale alla cura e alla diligenza con cui viene gestito questo che dovrebbe rappresentare il fiore all’occhiello dei nostri beni culturali. Per rendersene conto basta fare un giro lungo il percorso riservato ai visitatori: transenne, pericolo di crolli, cani randagi, sacchetti di spazzatura, guide abusive e assoluta mancanza di controlli. Sì, i custodi - in teoria - ci sarebbero, ma la teoria non è certo sufficiente per arginare i furti di souvenir che ormai sembrano «compresi» nel prezzo del biglietto d’ingresso. Portarsi via il «ricordino» è diventato, da anni, un’abitudine che nessuno, a Pompei, si pone più il problema di arginare. Tutto è rimandato al senso di responsabilità dei turisti che, tra educazione vandalismo, spesso optano per il secondo. E allora ecco la nemesi, sotto forma di sfortuna, che colpirebbe (il condizionale è d’obbligo, ma ci piacerebbe che fosse una certezza) il collezionista di trofei antichi. Niente a che fare con i tombaroli professionisti, per carità; ma - si potrebbe dire - piccoli tombarli crescono... E che non si tratti di semplici calunnie, lo dimostrano le parole sconsolate di don Vincenzo Sicignano, 81 anni, che sta alla memoria dei custodi di Pompei come il massaggiatore Carmando a quello dei giocatori del Napoli: «Non riesco più a entrare nell’area degli Scavi. Mi verrebbe da piangere a vedere com’è ridotta. Negli anni ’60 avevami i cani guardiani: tre molossi napoletani (viva la manodopera locale... ndr) e un bastardino che guidavano i custodi.

Poi sbranarono un gregge di pecore e furono eliminati». Mai pensato a un bel antifurto? «Tanti anni fa ne installammo uno modernissimo. Fummo costretti a staccalo perché scattava ogni volta che passava un treno...».
Mitico, don Vincenzo.

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