nostro inviato a Treviso
La cittadella fondata dalla Compagnia olandese delle Indie Occidentali sulla punta meridionale dell'isola di Manhattan - in un luogo strategico per l'America e poi per il mondo - portò il nome di Nuova Amsterdam, anzi Nieuw Amsterdam, fino al 1664. Appena conquistata, la prima cosa che fecero gli inglesi fu cambiarle nome. E divenne New York.
Il toponimo Vipiteno, invece, di per sé non esiste neppure. Dopo l'annessione dell'Alto Adige, l'asburgica Sterzing fu ribattezzata dagli italiani inventando un nome «romanizzato» che riprendeva il termine latino di un presunto accampamento romano, e neppure vicino al luogo della città: Vipitenum. Ancora qualche mese fa il Suedtiroler Freiheit - un movimento politico indipendentista della provincia autonoma di Bolzano - ha chiesto di abolirlo. Ed è passato un secolo...
E vi ricordate The Blue Marble? L'abbiamo vista tutti, mille volte: è la famosa fotografia della Terra scattata il 7 dicembre 1972 dall'equipaggio dell'Apollo 17, la prima a ritrarre il nostro pianeta completamente illuminato, in quanto al momento dello scatto il Sole era alle spalle degli astronauti, facendolo apparire una «biglia blu». Immediatamente divenne il simbolo, esibito in tante battaglie ecologiste, della fragilità e vulnerabilità del pianeta.
Tutte storie di rappresentazioni di luoghi - ma sono solo tre esempi fra migliaia - e insieme storie di conflitti. Allora la domanda è: ma La geografia serve a fare la guerra? Che è il tema su cui il centro Studi e ricerche della Fondazione Benetton ha lavorato negli ultimi tre anni e il titolo di una grande mostra che apre oggi negli spazi di palazzo Bomben, a Treviso. Un pool di studiosi guidato dal geografo Massimo Rossi, quattro grandi sale, un centinaio di pezzi tra mappe, atlanti e opere d'arte, dall'antichità a oggi, per raccontare la straordinaria, sottile e pericolosa forza persuasiva - oltre che comunicativa - delle carte geografiche. Che non servono solo a mettere ordine nel mondo altrimenti caotico in cui ci troviamo a vivere. Ma gli danno forma e senso. A seconda di chi quelle carte commissiona, chi le disegna, chi le veicola, chi ne fa una bandiera...
Includendo o escludendo porzioni di territorio, cambiando i toponimi, facendo slittare i confini, scegliendo scale e proiezioni, i geografi - da sempre - consegnano alla politica una certa idea di impero, di regno, di unità nazionale. L'arte del governo e la scienza della geografia sono strettamente collegate. E forse non è un caso che George Washington e Thomas Jefferson, prima di diventare presidenti degli Stati Uniti, fossero abili topografi. E neppure che Cesare Battisti, l'irredentista che si immolò per la causa trentina, fosse uno strepitoso geografo. Anche chi non conosce la Storia intuisce che i confini rettilinei del Nord America oppure quelli degli Stati africani, tirati col righello al congresso di Berlino del 1885 cancellando identità e tradizioni, sono figli di decisioni esclusivamente politiche, per nulla naturali.
La carte geografiche con un semplice segno - il confine naturale, spesso causa di futuri massacri - inducono fiumi e montagne a diventare strumento di separazione. Mappano - quando ancora si credeva che esistessero - le razze. Definiscono e raggruppano gruppi etnici. Trasformano «espressioni geografiche» in nazioni... In mostra c'è una straordinaria tavola, una Veduta d'Italia, orientata a sud, pubblicata nel 1853, che più di ogni trattato di Storia svela - attraverso un inusitato punto di vista - l'aspirazione della Penisola a esistere politicamente come nazione, indicando nei toponimi (Tunisi, Malta, Nizza, Bolzano, e persino quelli còrsi e giuliano-dàlmati), malcelate pretese irredentiste e colonialiste. Oltre la politica, anche la geografia è narrazione. Insomma, non solo - togliendo il punto di domanda del titolo - La geografia serve a fare la guerra. Ma la prepara. Ecco gli atlanti in uso nelle scuole. Ecco le carte geografiche più popolari, come la Carta del Teatro della guerra Italo-Austriaca donata dal Fanfulla ai suoi abbonati nel 1915. Ecco quelle realizzate dal filogovernativo Istituto geografico De Agostini o dalla Reale Società Geografica... Tutto comunica un'idea dell'unità d'Italia ben prima che sia militarmente compiuta.
La geografia è l'anticipazione della politica con altri mezzi.
Pensiamo al Piave. O alla Piave? Per secoli è stato l'articolo determinativo femminile a identificare il corso del fiume. Poi, all'improvviso, dopo la rotta di Caporetto, tra il 1917 e il 1918, la Piave cambia sesso per offrire, anche dal punto di vista linguistico, maggiore resistenza virile all'invasione austriaca, e sembra che nell'operazione grammaticale non sia estraneo lo zampino di Gabriele d'Annunzio, il poeta-soldato. Ma anche uomo decisamente esperto di comunicazione. A proposito: l'italiana Caporetto, che suona Karfreit in tedesco e Kobarid in sloveno, è solo uno dei 60mila toponimi che durante la Grande Guerra cambiano nome, per «grattare via la scabbia germanica» e per segnare (la geografia ha il potere di cambiare le cose con un segno, un colore, un simbolo) l'italianità di territori prima in mano al nemico. E quando i nomi non esistono, si inventano. L'esempio più clamoroso riguarda proprio le zone irredente. E il Südtirol diventa Alto Adige... Punti di vista.
In fondo, è solo perché siamo abituati a guardare il mondo da un certo punto di vista - la proiezione cartografica della terra di Mercatore con l'Europa al centro, ad esempio - che abbiamo cominciato a definire, da occidentali appartenenti al «primo», il Terzo Mondo. E solo perché vediamo il pianeta solo da un punto di vista - i classici mappamondi - che chiamiamo il nostro pianeta «Terra», pur essendo in stragrande maggioranza fatto di acqua. Basterebbe invece guardare i tappeti geografici afgani qui in mostra, dove i continenti affogano nell'immenso azzurro degli oceani...
All'incrocio tra la latitudine della creatività (il percorso dell'allestimento, firmato Fabrica, è perfetto) e la longitudine della scientificità (la cartoteca e l'ufficio «Studi e Ricerche» della Fondazione Benetton sono un'eccellenza), la mostra ricostruisce il potere «educativo», propagandistico, mediatico, militare e politico della geografia. E persino filosofico: ecco qua, in fondo alla terza sala, l'atlante rinascimentale di Abrahams Ortelius che adotta il punto di vista di Dio, con la terra guardata dall'alto e gli angeli agli angoli, speranza cartografica di una visione di pace in un'epoca - la mappa è realizzata nel 1570 - in cui infuriano le guerre di religione...
La geografia - una cosa per nulla naturale, perché
fatta dagli uomini - non serve solo a tracciare l'itinerario del viaggio. Per quello basta Google Maps. La geografia, smascherando le complesse relazioni tra i luoghi e chi ci abita, è un grande viaggio. Il più affascinante.
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