Maria Silvia Codecasa una vita in viaggio dalla parte delle donne

Ha gli occhi intensamente azzurri e alle spalle un Paese lontano, da cui fu cacciata da bambina. Maria Silvia Codecasa, ottant’anni ormai superati, deve forse a quella lontana cesura, a quello strappo che la staccò per sempre dalla terra istriana dove era nata, l’istinto nomade che l’ha spinta per il mondo, inesausta viaggiatrice sulle tracce di culture in via di estinzione come di nuove forme di aggregazione civile.
Oggi è forse l’ultima erede di quella stirpe di grandi viaggiatrici europee che ebbero in Alexandra Ossendowski, in Freja Stark, in Ella Maillart e in Annemarie Schwarzenbach le loro campionesse. Poi arrivò il turismo e il viaggio morì. Maria Silvia Codecasa è qui a dimostrare che viaggiare è ancora possibile, dimenticando il turismo. E che di viaggio è ancora possibile scrivere. Dopo anni di pubblicazioni in inglese (in Italia sono usciti soltanto Lettere turche nel 1970, editore Palazzi, e Sette serpenti, Manifestolibri, 1994), Vallecchi ha pubblicato quest’anno Mezzo cielo, metà Luna (pagg. 189, euro 8,50). Un piccolo libro color arancio, un livre de poche, da infilare in tasca o nello zaino prima di partire. Magari con un autobus sgangherato, verso la prima tappa di una improbabile meta finale. Come fece Maria Silvia nel 1973, partendo da Smirne e diretta al Pakistan, via Iran e Afghanistan. Autobus, treni, passaggi di fortuna. Mai un aereo, e alla fine del viaggio questo libro.
Ma come ci era arrivata, a Smirne, la ragazza bionda nata a Fiume, ex campionessa italiana di fioretto? Ci era arrivata dopo una doppia laurea (una con tesi in antropologia e un’altra alla Bocconi in inglese con tesi su Orwell), un matrimonio con un ragazzo di Pola che poi divenne direttore dell’Istituto di ricerca della Carlo Erba e inventò la chemicetina, una borsa di studio vinta con l’American Association of University Women. E infine con la famigerata legge 336 che permise a un sacco di gente di andarsene in pensione precocemente.
Invece di dedicarsi al bridge o al découpage, Maria Silvia prese lo zaino. La muoveva un interesse che potremmo in un certo senso definire «femminista», cioè la volontà di studiare i luoghi dove esiste ancora una società «matrilineare» dove cioè i beni e le proprietà passano di madre in figlia. La trovò in Polinesia e in altri Paesi ancora, ma intanto nello Sri Lanka come in isole dimenticate dell’arcipelago delle Filippine si imbatté nei popoli adoratori dei serpenti e scoprì una singolare coincidenza fra questo culto e l’apparizione in cielo della costellazione delle Pleiadi. Incontrò anche e a fondo la vasta cultura dell’Islam e, siccome è rimasta una studiosa occidentale che, benché profondamente rispettosa delle civiltà che studia, non dimentica la propria formazione culturale, si è indignata della condizione femminile nei Paesi della Mezzaluna.


Ha dovuto travestirsi da uomo, ha rischiato lo stupro, ha provato sulla propria pelle che per l’altra metà del cielo sotto la sharia è sempre notte. Il suo libro è anche un omaggio ai milioni di donne ancora senza voce.

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