Il medico condotto dell’arte

Avevo inteso il mio mandato al governo dei beni culturali in nome di principi che sono etici ed estetici prima che politici, e comunque pre-politici, in quanto ideali (si ricordi la celebre illuminazione di Platone: «La bellezza è lo splendore del vero»), come un esercizio quotidiano di verifica, controllo, attenzione al patrimonio e allo spirito delle città e dei paesi d'Italia, per prevenire ed evitare ammaloramenti, malattie, ferite, quando non mortali, alle opere d'arte, ai monumenti: insomma, un vero e proprio impegno di pronto soccorso. E così per un anno ho fatto, dalla Scala al Petruzzelli, dagli Uffizi al Porto Vecchio di Trieste, in un continuo esercizio di attenzione per i singoli casi, come un medico per i singoli malati. Il problema del patrimonio artistico è questo, non il sistema ma i singoli casi, non le teorie e i codici ma i muri di ogni edificio, i profili dei monti, le strade, oggi persino le piazze, minacciate da urbanisti che vogliono cambiarne forma e identità. La difesa deve essere capillare, deve riguardare intonaci e pavimentazioni, e anche atmosfere, patine, odore. Occorre vedere e capire, e, se ne si ha il mandato, decidere. Urbino non poteva avere sotto i torricini di Palazzo Ducale, una vistosa tettoia concepita come un'ala di aereo, ferita all'architettura e al paesaggio; non poteva averla, ma rischiava di averla, come altrove è accaduto e accade. Per esempio con la turpe ferita al rinato centro storico di Cosenza, nella inverosimile, ma purtroppo vera, Piazza Toscana. Accade perché chi deve vigilare non vigila, ma è complice o distratto, e le teorie non salvano né i monumenti, né le piazze. Così posso compiacermi ora di un altro effetto felice, frutto di una immediata spericolatezza (senza comitati, commissioni e compromessi, che non hanno impedito, come ripeto sempre, l'orrore della nuova copertura dell'Ara Pacis, tenacemente perseguita per la cecità delle Pubbliche Amministrazioni, conferenti al danno irreparabile nel cuore di Roma: una pompa di benzina concepibile solo per il Texas), di una decisione assunta quando ero sottosegretario. Andai, io, non un delegato, a Cagli, dove i due soprintendenti Scoppola e Lippi mi chiedevano di valutare un tema difficile nella Chiesa di San Francesco.
Dietro il catino absidale erano apparse vaste zone di superfici affrescate della metà del XIV secolo. In tempi diversamente barbari, e con la insensibilità di architetti e committenti, non più sensibili dei nostri, ciò che apparteneva a un'altra epoca poteva essere distrutto o cancellato in nome del nuovo. Così la Chiesa di San Francesco a Cagli fu, tra Cinque e Seicento, ridisegnata nel suo interno. Rivestendola, nel disporre i nuovi altari, con muri nuovi che ne occultavano, senza distruggerla completamente, in virtù di una intercapedine, la decorazione a fresco trecentesca e quattrocentesca, che dunque vi è ancora, in larga parte risparmiata. In quel caso, addirittura, la pietas storica, o il riconoscimento di un qualche interesse per quella decorazione, arrivò a determinarne lo strappo di alcune parti. Così, ai lati del primo altare a destra, graziosamente incorniciati, si vedono eleganti affreschi, tra Gotico fiorito e Rinascimento «umbratile», attribuiti ad Antonio Alberti da Ferrara. Dietro l'immacolato catino absidale vi erano invece gli affreschi, più notevoli, per i quali occorreva prendere una decisione, se tenerli segreti o riportarli alla luce, sacrificando l'unità dell'architettura, semplice e pur pregevole. Decisi per la seconda soluzione, allontanando incertezze ed esitazioni.
Forse era lo stesso proposito che albergava nei cuori dei due valorosi soprintendenti, e senza ulteriori attese, sotto lo sguardo trepido e vigile dell'amoroso assessore alla cultura, senza paragone il più sensibile d'Italia, Alberto Mazzacchera, si diede il via all'impresa che, oggi, è compiuta. Cagli è una città bellissima, con grandi palazzi che nascondono bellezze impreviste, soluzioni architettoniche sorprendenti, e l'abbandono stesso ha risparmiato insolenti «ristrutturazioni». Ma oggi gli affreschi restituiti le attribuiscono un nuovo e non marginale ornamento. Si entra nell'aula unica della chiesa e la porzione di abside asportata non interrompe l'armonia, ma consente che tutta l'architettura sia come la montatura per una pietra preziosa. In alto risplendono e ridono gli affreschi ritrovati cui gli archi dei costoloni gotici danno un ritmo solenne che si accorda perfettamente con le linee semplici e austere dell'area absidale. Un alto arco di trionfo e sotto le forme gotiche ad ombrello entro cui si accomodano, in sei spicchi, i dodici apostoli in conversazione, seduti su singolarissimi troni cosmateschi bicuspidati, a due piazze: coppie che dialogano su questi insoliti scranni, una per spicchio, sotto le ali protettive di angeli dinamici, scattanti su nuvole piene di fulmini e pronti a far scendere sulle ben custodite teste le corone della conquistata santità. Pittura e architettura dipinta, dunque, in una dimensione, letteralmente, aulica, l'aula della chiesa essendo dominata da questi principi della fede in concilio. Si è tentato anche, dopo la formidabile scoperta, di indicare un autore per questi affreschi così preziosi. Taluno ha indicato il nome di Mello da Gubbio, artista pregevole ma forse mai a una temperatura così alta. Ho preferito allora, motteggiando, proporre il nome di comodo, ma pertinente al caso, di «Meglio da Cagli», che rispecchia la segreta eccellenza di questa città felice. Ancor più oggi e, per me, nella piena soddisfazione della scelta politicamente (ed esteticamente) più giusta.

Per celebrare questa notte luminosa di apparizioni, amici ci aspettavano, con riconoscenza e desiderio, nella «Cantina del beato», non più di me, restituito dal cielo degli apostoli alla terra di uomini buoni, tra salami e vini contadini. Beato anch'io, fra gli amici, in Cagli.

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