Il medico operaio e il suo ospedale costruito sulla cima delle Ande

Pietro Gamba ha sposato un’allieva biologa che lavora con lui e gli ha dato quattro figlie L’ultima, Norma, ha la sindrome di Down: "È lei che sorregge la famiglia"

Il medico operaio e il suo ospedale 
costruito sulla cima delle Ande

Ci sono medici che sull’esempio di Albert Schweitzer, il premio Nobel per la pace oggi sepolto vicino al suo dispensario di Lambaréné, nel Gabon, sono entrati nella storia, come se avessero curato l’umanità intera. Pietro Gamba, il soccorritore dei campesinos della Bolivia, è uno di questi medici. Solo che prima faceva il tornitore meccanico. Quando 28 anni fa decise di lasciare il posto da operaio in fabbrica, tutto poteva pensare tranne che un giorno sarebbe diventato il dottor Gamba, laureato con 110 in medicina e chirurgia, anestesista, esperto di malattie tropicali, e che avrebbe lavorato in un ospedale chiamato col suo nome e cognome.
L’Hospital clinica de l’Asociación humanitaria Doctor Pietro Gamba si trova nel cuore delle Ande, ad Anzaldo, un paesino di un migliaio d’abitanti dimenticati dal mondo, 3.200 metri d’altitudine, nel dipartimento di Cochabamba. Esegue 150 interventi chirurgici l’anno. Dispone di 10 posti letto, sala operatoria e sala parto, servizi di radiologia, ecografia, citologia, oculistica e diagnostica. Ci lavorano la moglie del fondatore, altri due medici (un italiano e un chirurgo boliviano stipendiato personalmente da Gamba), tre infermiere, due laboratoristi. Tenerlo aperto costa 80.000 dollari l’anno. I poveri vi vengono ricoverati, curati e operati gratuitamente. È convenzionato direttamente con la provvidenza, perché in Bolivia non esiste il servizio sanitario nazionale.
A dire il vero in questa sperduta località della cordigliera andina non esistevano neppure l’acqua potabile e l’energia elettrica. Il dottor Gamba ha fatto arrivare ad Anzaldo anche quelle. Ecco perché il giorno in cui decise di portare all’altare Margarita Torrez, una volontaria laureata in farmacia e biologia arrivata ad assisterlo dall’Università di Cochabamba, non dovette pensare a nulla: solo indossare l’abito da sposo. «Hanno organizzato tutto i campesinos. Due giorni di festeggiamenti in piazza». Dal matrimonio sono nate quattro figlie: Silvia, che studia medicina, Linda e Alba, che frequentano le superiori, e Norma, «che a 12 anni ha ancora qualche difficoltà a calcolare 2 per 2, però è la più affettuosa». Il giorno in cui nacque, Ognissanti del 1998, il medico bergamasco non poteva sapere che la sua ultimogenita fosse positiva alla trisomia 21. «Che era portatrice della sindrome di Down l’ho capito solo dopo qualche settimana, osservandole le dita dei piedi. Oggi è Norma che sorregge tutta la famiglia e m’impartisce ogni giorno lezioni di tenacia».
Gamba è nato nel 1951 a Stezzano, alle porte di Bergamo. Il padre Battista, un montanaro sceso dalla Val Brembana a fare il contadino, rimase vedovo nel 1948: la moglie Palma, che voleva a tutti i costi un maschio, si sentì male subito dopo il parto, quando le dissero che era nata una femminuccia, e non si riprese più. Battista Gamba si risposò con Angela ed ebbe altri 9 figli. La primogenita, Rachele, morì a 4 anni in un incidente domestico, ustionata dall’acqua bollente che la mamma trasportava in due secchi.
Pietro, il secondogenito, con i suoi primi stipendi, 70.000 lire al mese, divenne il principale sostegno dei fratellini. Figurarsi la faccia del padre, che aveva appena perso due vacche e ricavava dai campi meno di quanto lo Stato gli passasse con gli assegni familiari, nell’apprendere che il figlio maggiore sarebbe andato ad aiutare i contadini dell’America Latina. Il poveruomo perse la parola e rimase chiuso nel suo silenzio per settimane. «Non volevo servire la patria in armi, ma allora per gli obiettori di coscienza non esisteva il servizio civile alternativo», racconta il dottor Gamba. «Chi si rifiutava di partire per la naia finiva in galera a Peschiera del Garda o a Gaeta. Don Bepo Vavassori, un prete che nei Patronati San Vincenzo raccoglieva ragazzi abbandonati, orfani e caratteriali, mi spronò a studiare pedagogia, con l’intenzione di mandarmi per tre anni in una sua missione in Bolivia e nel frattempo, a mia insaputa, mi fece figurare come seminarista, cosicché nel giro di pochi mesi mi arrivò a casa il congedo illimitato».
Resta un mistero, che nemmeno l’interessato riesce a spiegare, il motivo per cui, con quel volto serafico incorniciato da una barbetta bianca da frate cappuccino, non sia diventato in effetti padre Gamba. «Pensai solo a conseguire il diploma di perito meccanico alle scuole serali, in modo da poter insegnare qualcosa ai boliviani. Partii il 14 settembre 1975. Un mese in mare fra Atlantico e Pacifico perché non avevo i soldi per l’aereo. Fu una delle ultime traversate oceaniche della nave passeggeri Rossini, che sarebbe stata demolita pochi mesi dopo. Sbarco nel porto di Antofagasta, in Cile, e da lì in pullman fino a La Paz».
Chi la aspettava nella capitale boliviana?
«Don Vavassori era morto a febbraio, nessuno sapeva del nostro accordo, non c’era nulla di scritto. La prima tappa fu la Ciudad del Niño, un villaggio di casette per orfani costruito dalle ambasciate. Ma litigai subito col direttore, un prete bergamasco. Sono venuto quaggiù per vivere tra i poveri come i poveri, gli dicevo. E lui: “Ma i poveri non mangiano, sono pieni di pidocchi e senza casa. Vai, vai. Vedrai che tornerai indietro presto. È troppo dura”. Partii per Challviri, 3.800 metri sul livello del mare. Appena 70 famiglie. Da Cochabamba oggi sono sette ore di auto. Ma allora erano 12 ore di cammino. Mi fermai dove finiva il sentiero».
Come fu accolto?
«“Tu chi sei?”. I campesinos erano i primi a non capire. Facevano un unico raccolto l’anno di patate e si nutrivano solo di quelle. “Qui non abbiamo polli da cucinarti”, mi dicevano. Io voglio mangiare patate come voi, gli rispondevo. Era difficile anche intendersi, perché lì si parla solo il quechua, l’antico idioma degli inca. Mi misi a studiarlo. Facevo mattoni di fango e paglia e li essiccavo al sole. Ero ridicolo. Ma felice. Con i mattoni costruii una scuola. Le famiglie mi ospitavano a turno per la notte. Mi presi la scabbia, o rogna che dir si voglia».
Malattia della pelle altamente contagiosa.
«Per curarmela mi spruzzavano il Ddt sulle piaghe. Un prurito notturno lancinante. Dovetti scendere a valle e cercare aiuto. Una suora mi rifornì di pomate, garze, tintura di iodio, acqua ossigenata. Qualche tempo dopo i campesinos mi portarono Marquito, 4 anni. Il mio primo paziente. “Pedrito, fa’ qualcosa!”, m’implorarono. Io ero il gringo, quindi non potevo fallire. Il bimbo era rimasto ustionato da una pentola d’acqua bollente, proprio come la mia sorellina Rachele. S’era salvato, ma aveva un braccio ridotto a un cotechino. Il curandero, lo sciamano locale, ci aveva messo sopra un impiastro fatto con lo sterco di mucca. Lavare l’arto del bambino con l’acqua tiepida e spalmare la crema cicatrizzante fu un’operazione atroce: urla disumane, in quattro a tenerlo fermo. Dopo 15 giorni era guarito. E lì mi hanno fregato per sempre. Ero diventato il mago arrivato dall’Italia e a ogni disgrazia chiamavano me. Ma io ero solo un tornitore. Che potevo saperne della vinchuca?».
Che cos’è?
«Un insetto ematofago che punge di notte. Mentre succhia il sangue, defeca sulla ferita e così trasmette il Trypanosoma cruzi, un protozoo che provoca la malattia di Chagas. Il parassita si annida nell’intestino, distrugge i plessi nervosi e annulla la peristalsi. Si muore per volvolo, cioè l’attorcigliamento del viscere con conseguente strozzamento dei vasi sanguigni e necrosi ischemica dell’organo. Il primo a spirarmi fra le braccia fu un padre di famiglia. Aveva appena 31 anni. Poi persi Pedrito, 5 anni, che portava il mio stesso nome, Pietro, e mi chiamava papà perché gli davo il minestrone».
Sempre per la malattia di Chagas?
«No, per un’epidemia di morbillo. Ma io allora non potevo saperlo. Cercai di abbassargli la febbre con l’aspirina. Peggiorava. Al terzo giorno suo padre m’impedì di visitarlo e chiamò il curandero, che fece sigillare la casa e lo lasciò lì dentro avvolto da incensi. Quando fu riaperta la porta, Pedrito era cadavere. Poi due fratellini che non riuscivano a respirare e morirono sotto i miei occhi. Poi altri due. Mi sentivo impotente. Scrissi una lettera alle autorità sanitarie di Cochabamba, invocando aiuto. Un campesino partì a cavallo sotto la pioggia per consegnarla. Tornò dopo cinque giorni. Non era riuscito neppure a ottenere una risposta scritta. Gli avevano detto semplicemente: “Verremo a vedere di che si tratta quando saranno morti almeno dieci bambini”».
Comincio a comprendere perché da perito meccanico è dovuto diventare medico.
«A quel punto erano già passati due anni. Sentivo che il tempo stava scappando. Dovevo scegliere fra la coerenza con me stesso e il rientro in Italia. Di notte, a 3.800 metri, le stelle ti vengono in mano, allunghi il braccio e te le prendi. Quell’esplosione della volta celeste, il silenzio, il freddo, la lontananza... Mi venne spontaneo parlare col Creatore: dimmi Tu che cosa vuoi che faccia. E la risposta arrivò spontanea: “Ma fa’ il medico! Non vedi che quassù i medici non arrivano? È tanto chiaro! Perché sei venuto in Bolivia? Adesso tocca a te”. Cercai di resistere. Cacchio, sono un tornitore, io. No, no, non c’entro niente con questa storia, non è per me. Sono venuto soltanto a vedere, lasciami stare, dài, passerà. Il giorno dopo camminai per 12 ore nella tempesta ma alla fine avevo deciso».
E ritornò in Italia a studiare medicina.
«A Padova lo psicologo del Cuamm (Collegio universitario aspiranti medici missionari, ndr) non voleva iscrivermi all’università: “Siete tutti un po’ schizzati voialtri che tornate dall’America Latina”. Dovetti insistere. Mi fu concesso un anno di prova. Alla fine riuscii a laurearmi nel più breve tempo possibile e col massimo dei voti. Ricordo l’ultimo esame nel 1984, clinica chirurgica, col professor Pier Giuseppe Cevese, uno dei più grandi virtuosi del bisturi. Mi presentai in sandali. “Sei pazzo, se non hai giacca e cravatta ti caccia via”, mi dicevano i compagni. Invece m’interrogò e mi mise un bel 30 sul libretto. Il mese dopo ero già in un piccolo ospedale di Faido, nel Canton Ticino, a fare pratica di ginecologia. Sono stati gli svizzeri a consigliarmi di aprire il mio ospedale ad Anzaldo, dove almeno c’è una strada per farci passare l’ambulanza e posso servire un territorio più vasto».
Ha mandato in pensione il curandero.
«Quello è un mestiere che in Bolivia non morirà mai. Anche perché chiunque può improvvisarsi guaritore, basta che sia circondato da un’aura soprannaturale. A 14 anni Eulogio era caduto dal camion ed era finito in uno stato vegetale per un ematoma al cervelletto. L’ho fatto uscire dall’incoscienza togliendogli tutti i farmaci. Qualcuno ha gridato al miracolo. Adesso parla tre lingue e si guadagna da vivere come curandero. Butta per aria le foglie di coca e, osservando come cadono una sull’altra, fa le diagnosi».
E quando si ammala il medico dei campesinos, chi è che lo cura?
«Gli amici. Mi sono attorniato di persone selezionate per sensibilità. Ci ho messo 25 anni. Sono vivo per miracolo anch’io. Nel 2002 la centrifuga che serve per le analisi del sangue e delle urine è schizzata via dal suo perno mentre ruotava a 8.000 giri e mi è arrivata in faccia. Poteva aprirmi in due la testa. Me la sono cavata con la frattura dell’osso zigomatico-orbitale».
Di che cosa avrebbe più bisogno in questo momento?
«Di una nuova sala radiologica. Dagli apparecchi Müller di mezzo secolo fa escono lastre che non mostrano con precisione le patologie».
Ma come fa a mantenere da solo una struttura sanitaria?
«Non sono solo. Ogni tanto arrivano medici e specializzandi a lavorare gratis. Da Padova è venuto il primario Nicola Zadra a darmi qualche dritta sull’anestesia spinale. Da Teggiano, in provincia di Salerno, s’è fatto vivo per mail e poi è rimasto ad Anzaldo per sei mesi Cono Casale, specialista in gastroenterologia. L’8 novembre, per il mio compleanno, s’è presentato persino l’attore Stefano Accorsi, il compagno di Laetitia Casta».
A fare che?
«Le spiego. Un giorno mi scrive Moira Mazzantini, sorella di Margaret, la scrittrice sposata con Sergio Castellitto. È l’agente dei più popolari registi e divi del cinema. Mi dice che vuole coinvolgerli negli aiuti all’ospedale. Dopo qualche tempo mi chiede se ho avuto riscontro. Solo 100 euro dalla regista Liliana Cavani, ho dovuto risponderle. Così l’anno scorso ha organizzato una serata alle Officine Farneto di Roma: 30.000 euro. E a gennaio, con l’aiuto di Accorsi, si replica. Io non c’entro nulla. Non sono io il bravo. È la provvidenza che compone e incastra tutte le storie».
Com’è che lei riesce a operare e a guarire senza bisogno di eseguire trapianti d’organo come la maggior parte dei suoi colleghi chirurghi nel mondo civilizzato?
«Basta avere ben chiaro che la morte fa parte della vita. Chi ha una patologia del fegato o del rene, ad Anzaldo è morto. A una mamma di 30 anni, con un cancro al collo dell’utero, posso solo dire: prepàrati, anche se hai quattro figli ancora da crescere».
In Italia dove farebbe il medico?
(Sgrana gli occhi, si ripete la domanda). «Non ci ho mai pensato. Vorrei continuare a non pensarci».
Come passerete il Natale nell’ospedale di Anzaldo?
«Ci sarà la messa di mezzanotte. Poi metteremo una tovaglia diversa e i malati che potranno alzarsi dal letto staranno a tavola con tutto il personale».
Quando lei non ci sarà più, chi prenderà il suo posto?
«Se si chiama provvidenza, vuol dire che provvederà. Qualcuno che darà continuità a questa piccola cosa si troverà. Di questo sono sicuro. L’ho detto anche al direttore del Credito Bergamasco di Stezzano, dove è stato aperto il conto della Fondazione Pietro Gamba.

“Può scegliere il numero che preferisce”, mi ha spiegato. Otto, gli ho risposto io. È il simbolo dell’infinito. “Mi spiace”, ha ribattuto, “servono almeno quattro cifre”. Allora 8888».
(523. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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