Ci si può chiedere all’inizio del nuovo anno cosa riserva il futuro al Medio Oriente e se nei due principali punti di crisi - Palestina e Irak - ci sarà qualche miglioramento. È una speranza che ha poche giustificazioni, fra l’altro, perché tende a sminuire l’importanza di un fenomeno che, anche a causa del fallimento americano di estendere la democrazia alla regione, sta dimostrandosi efficace: l’assassinio come sistema di ricambio delle élite. Il caso pachistano è l’ultimo esempio. Situazione tipica nelle società tribali in cui la separazione fra potere religioso e politico fa paura sin dagli albori dell’islam e della successione violenta a Maometto. Anche Israele non ne è immune, come dimostrano l’assassinio di Rabin e le minacce quotidiane contro il premier Olmert, apparentemente deciso a continuare la politica anti-coloniale di Rabin.
In Palestina il cambiamento del corso politico con l’assassinio è in atto da entrambe le parti. Viene usato quotidianamente da Israele nei confronti della dirigenza militare di Hamas mentre nessuno sembra disposto a scommettere sulla longevità sia del primo ministro di Hamas, Hanyeh a Gaza, che di quello di al Fatah, Fayad a Ramallah, come del resto dello stesso presidente palestinese Abu Mazen. Gli assassini mirati non sono certo una novità per Israele. Quello che è cambiato sono frequenza e precisione assieme ai mezzi impiegati.
Una possibile spiegazione delle ripetute guardinghe proposte di Hamas per una «lunga tregua», accompagnata dalla sospensione dei lanci di missili contro Israele (dal giorno dell’evacuazione dei coloni da Gaza ordinata da Sharon tre anni fa ne sono stati lanciati 9280. E ieri sono stati lanciato i primi katiuscia) potrebbe essere il fatto che gli israeliani sono riusciti a penetrare le sue organizzazioni militari. Se questo è il frutto di un migliorato sistema di intelligence o della guerra civile palestinese è difficile dirlo. Certo è che il sistema di eliminazione mirata dei comandanti militari di Hamas è in piena funzione. Lo è del resto e per altri motivi in Libano dove l’assassinio nel febbraio del 2005 del premier Rafik Hariri (che obbligò la Siria a ritirare le sue truppe) ha aperto una fase nuova di «ricambio delle élite» fra pro siriani e anti siriani.
La politica dell’assassinio ha fatto «perdere la pazienza» nei confronti della Siria sia al presidente americano Bush sia a quello francese Sarkozy. Quest’ultimo ha scelto l’incontro col presidente egiziano Mubarak per annunciare la rottura dei contatti con Damasco. Una bomba politica, tenuto conto degli sforzi fatti dal presidente francese sin dai primi giorni della sua elezione all’Eliseo. Per Parigi la situazione in Libano è così diventata un banco di prova per quella che appare essere una nuova politica francese nel Medio Oriente. La posta è alta. Sarkozy espone le truppe francesi dell’Unifil alle rappresaglie e forse a un aperto scontro con gli hezbollah e si trova ad affrontare quell’«asse di destabilizzazione» creato da queste milizie con la Siria e l’Iran. Di questo «asse» il Libano è l’anello debole e il teatro su cui da sempre si scontrano gli interessi «teleguidati» arabi: Israele e palestinesi; cristiani e musulmani: sciiti e sunniti; democrazia e teocrazia; occidente e oriente. Forse il presidente francese ritiene che la solidità di questo asse sia minore di quanto le ambizioni nucleari dell’Iran e il potere di Assad in Siria facciano credere.
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