Addio a Flachi, il boss della Comasina

Il gangster salì tutti i gradi senza bisogno di ammazzare nessuno

Addio a Flachi, il boss della Comasina

È difficile dire di un gangster che era simpatico e intelligente. Ma Pepè Flachi (nella foto) aveva entrambe queste caratteristiche, senza le quali non avrebbe conquistato il ruolo di assoluto predominio nella criminalità milanese che nessun altro dopo di lui ha più avuto. Era un duro, ma salì tutti i gradi senza bisogno di ammazzare nessuno. Quando si impegnò in una guerra sanguinosa, lo fece quasi malvolentieri e forse sapendo in cuore suo che da quella guerra non sarebbero usciti vincitori: chi non finiva sottoterra sarebbe finito in galera e una intera generazione criminale si sarebbe autocancellata dalla scena. Andò a finire proprio così.

Flachi se ne va ieri, a 71 anni, in una stanza d'ospedale, ultimo approdo dei guai di salute che dal carcere dove scontava l'ergastolo lo avevano portato in una comunità, a combattere una battaglia già persa con il Parkinson e col cancro. L'ultima volta che era apparso in tribunale, in un corridoio davanti al giudice di sorveglianza, era già segnato, piegato. Sapeva di essere un sopravvissuto: i ragazzi che negli anni Settanta e Ottanta avevano accompagnato la sua ascesa - gente allegra e tosta come Michele Raduano e Salvatore Batti - erano già da un pezzo sottoterra e Flachi sapeva ormai che la sua fine era ormai prossima, che sarebbe stata solo meno sbrigativa.

Nascevano tutti come rapinatori e sul piano etico il giudizio peggiore che si portano addosso è di essersi arricchiti col traffico di eroina, sulla pelle delle centinaia di ragazzi che schiattavano di overdose. Il quartiere di Flachi, quello dove era approdato in calzoni corti da Reggio Calabria agli inizi degli anni Sessanta, era la Comasina: e da lì, narra la leggenda, scacciò Renato Vallanzasca quando dopo l'ennesima evasione si presentò in cerca di appoggi. Ma da lì il suo prestigio e il suo potere si erano estesi a tutta Milano. Chissà quanto sarebbe durata se quel guerrafondaio di Franco Coco Trovato non lo avesse trascinato nella guerra di sterminio contro Salvatore Batti, il suo amico di un tempo che aveva osato presentarsi nel bar di Coco dicendo «Franco, fammi un chinotto»: e non stava chiedendo una bibita gassata.

Si sterminarono

a vicenda e nei regolamenti di conti ci andarono di mezzo anche passanti innocenti. Quando Batti venne raggiunto e giustiziato a Napoli, la guerra finì. Subito dopo, iniziarono i pentimenti e gli arresti. E un'epoca finì.

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