«Quella mattina uscì per andare all'ospedale. Non è mai più tornato a casa. Era la fine di un marzo diverso da tanti altri. E nessuno di noi lo avrebbe immaginato. Un anno di dolore e emergenze. Un anno alle prese con una malattia sconosciuta. La diagnosi di papà fu bruciante. Coronavirus. E dall'ospedale non uscì più. Il giorno di Pasqua ci dissero che se n'era andato. Non lo abbiamo potuto nemmeno salutare. Il permesso era soltanto per due ma lui, di figli, ne aveva nove. Alle tre del pomeriggio ci arrivò un'urna con le ceneri». Storie di ordinarie angosce nelle terre del Covid. Primavera 2020, quella della pandemia maledetta. A metà strada fra la cronaca e l'album dei ricordi, Chiara Tuccillo sfoglia tra le lacrime gli ultimi giorni del padre come li ha raccontati in un docufilm, A viso aperto, girato in quei mesi di sofferenza tra Cremona, Brescia, Bergamo e Milano, il quadrilatero lombardo dove il virus ha picchiato con una violenza senza pari.
Il regista Ambrogio Crespi ha registrato il dolore di medici e dirigenti ospedalieri, chiamati a guardare in faccia quel male. Dritto negli occhi. Senza dimenticare altri occhi. Altre espressioni. Quelle di chi aveva paura e si era ammalato. Quelle di chi chiedeva aiuto. E di chi faticava a respirare ma la vita non voleva perderla. Tutti con il volto coperto dalla mascherina, combattevano strenuamente quella che Stefania Mattioli all'ospedale di Cremona si rifiuta di chiamare guerra. E nessuno sa se lo sia stata davvero ma, sul campo, di vittime ne ha lasciate tante. Così, mentre molti medici confidavano alla macchina da presa di Crespi le difficoltà di armi insufficienti e conoscenze frammentarie, in Lombardia si moriva senza sosta.
Oltre 35mila esistenze troncate da un male che ha costretto un intero Paese, l'Italia, a chiudere. Strade deserte. Morte apparente anche tra chi era vivo. Distanziamento sociale che fa terribilmente rima con solitudine. La preoccupazione che spingeva la gente sul balcone di casa a cantare per sentirsi più unita. Più vicina. Anche se il primo comandamento era sempre lo stesso. Stare lontani. Affollamenti vietati. Terra bruciata in strade che avevano conosciuto la gioia e il sorriso. Ma lo avevano dimenticato quasi subito, in un inverno tormentato dove tutti gli appuntamenti di svago cadevano come birilli contagiati per effetto di decreti governativi sempre più severi.
In questo deserto, dove solo la malattia sembrava avere cittadinanza, sono arrivati i samaritani, di nome e di fatto. Kelly Suter alla guida dei «Samaritan's purse» approdava da un'America designata a essere la vittima sacrificale successiva all'Europa. I cubani di Carlos Ricardo Perez Diaz che avevano raccolto l'allarme italiano. Gli artigiani. Gli alpini. I sanitari dell'esercito russo. Tutti, da un angolo all'altro del pianeta, si sono precipitati in Lombardia per affiancare medici sotto pressione e in preda a un'angoscia che non li abbandonava nemmeno al di fuori da quelle corsie, affollate e disastrate. Ospedali da campo che erano serviti per combattere Ebola ora venivano allestiti nelle nostre città per fronteggiare un virus dalla faccia ignota. Senza cuore né rispetto.
Il documentario che ora girerà l'Italia - dal Vittoriale ai luoghi del Covid per poi toccare Venezia, Firenze e i cinema d'essai di tutto il Paese che lo richiederanno e ai quali sarà gratuitamente concesso - rievoca quelle settimane e quei mesi senza il sapore di uno sguardo a ritroso ma in presa diretta. Negli attimi più bui.
Senza indugiare nella retorica delle parole o delle immagini. Solo attraverso la testimonianza. Per non dimenticare. Perché in fondo, con la volontà di ognuno, andrà tutto bene. Anche se è costato. Vite che non meritavano di finire qui.
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