Sulla maschera aveva scritto il suo motto in tempi in cui gli slogan non andavano di moda. «Mai morto». E in queste due paroline si sintetizzava Mario Mangiarotti, l'ultimo rampollo della stirpe regale della scherma italiana. Mai morto. Nemmeno oggi che è il primo giorno in cui se ne è andato per davvero. Eppure era lì, a un passo dal traguardo che non riesce quasi a nessuno. Cent'anni. I 99 li avrebbe compiuti tra un mese, il record era dietro l'angolo. La stoccata del secolo.
Mai morto voleva dire mai arrendersi. Mai abbattersi. Le sconfitte erano un punto di partenza. O meglio. Ripartenza. E le sue sono state poche, perché Mario era un campione. Un uomo tutto d'un pezzo. Un caparbio. Un austero. Ma, a suo modo, terribilmente dolce. Come chiunque nasca sotto quel segno dal lugubre nome tristemente evocativo - il cancro - che, per beffa del paradosso, fa regalare dagli astri ai suoi figli il profumo tenero della bontà. E lui, che in qualche ascendente aveva ereditato la pervicacia, non aveva dimenticato i sentimenti. Anche se voler bene significava sgridare. Richiamare al dovere. Criticare. L'aveva fatto con i suoi bambini. I loro amichetti. I piccoli che andavano alla sua scuola di scherma dove sono cresciuti generazioni di campioni della vita se non sempre della pedana.
Mario Mangiarotti era il più riflessivo dei fratelli, Edo il campionissimo cinico e prepotente dal palmares scintillante - 13 medaglie in cinque Olimpiadi, 26 ai Mondiali e tre alle Universiadi - e Dario, l'inimitabile funambolo della spada. «Edoardo aveva un anno più di me ma fino a quando ne avevamo dieci, ho sempre vinto io. Ogni domenica papà ci faceva combattere, pugilato o scherma poco importava. In pubblico o in privato. Era fatto così. Concepiva le sfide come insegnamento».
E per Mario, nato a Milano e cresciuto al Berchet tra i ragazzi bene di quella che non era ancora una metropoli ma da grande voleva diventarlo, è stata una palestra di vita. Un destino. Tra i banchi si era ritrovato Giovanni e Dino Fabbri, i futuri editori della cultura a fascicoli. Quella che aveva aggirato le librerie e si vendeva in edicola. L'eniclopedia «Conoscere». La Bibbia a dispense. I maestri del colore che ancora oggi occhieggiano qua e là nei mercatini. E come compagno di banco quel Carlo Alberto Rossi che firmò molti dei successi di musica leggera dal dopoguerra alla fine degli anni Sessanta, tra Le mille bolle blu di una lanciatissima Mina e quella domanda un po' così. E se domani... che divenne un successo.
Mario Mangiarotti se le portò a casa tutte e due le passioni di quegli anni della scuola. Cultura e musica che lo accompagnarono per tutta la vita. Lasciò il pop al suo destino e si invaghì della lirica. «Ascolta il belcanto, così almeno impari qualcosa» disse un giorno a un amico di sua figlia Marzia. E tanto disse e tanto fece che lo «invitò» ad ascoltare l'opera anche sulla terrazza di Bogliasco che, per lui, voleva dire il mare. E per quel ragazzo fu un'iniziazione. Stoccata vincente sul pentagramma, insomma.
La spada e le sette note. Riflessi della sorte. Quella che gli fece incontrare Eugenia Gavazzeni, strascichi di parentela con il maestro Gianandrea. E campionessa di fioretto a squadre. Arma diversa ma disciplina identica, Mario ed Eugenia fecero subito... squadra. La guerra era appena finita e per lui, il trionfatore delle Universiadi di Parigi del '47 in team con il fratello Edo e poi bronzo individuale si aprivano i successi sportivi. Oro nei Giochi del Mediterraneo del '51, l'anno in cui divenne campione d'Italia battendo i fratelli. Dario finì secondo, Edo terzo. Il podio era un affare di famiglia.
Mangiarotti non si accontentò. Le medaglie d'oro le cercò anche nella vita. E dopo la laurea con specializzazione in cardiologia si trasferì a Bergamo come pioniere della medicina sportiva. Insieme ad Angelo Quarenghi, il medico della grande Inter. «Di rado faccio vacanze, le malattie non vanno in ferie». E intanto curava la palestra. E ripeteva ai bambini quello che aveva visto fare quando il piccolo era lui. Nostalgia. Didattica. Austerità. Tornavano a galla le virtù che avevano fatto di Mario un Mangiarotti e Bergamo aveva chiamato sulla poltrona più importante del Coni provinciale per 25 anni. Un quarto di secolo. Tutto in scala per quell'uomo che aveva sfidato il tempo e, a suo modo, con quel motto, anche l'eternità.
Aveva resistito pure al dolore nel vedere la sua
Eugenia volare su una stella. Dove le mani e i sogni non arrivano. Mai morto. Fino a un'estate fa. A Bogliasco. L'unica scivolata di Mangiarotti gli costò un femore. Fu l'avvisaglia di un male subdolo. La stoccata della vita.
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