Il futuro del rugby è al Leone XIII

Il futuro del rugby è al Leone XIII

Altro che «fighetti». Tra le mura austere del Leone XIII, il liceo i cui studenti - per dirla francamente - a Milano vengono in genere considerati inclini a tirarsela un po', sbarca lo sport del fango e della democrazia, quello a cui tutti possono giocare basta che non si tirino indietro. Nelle camerate del Leone, da qualche giorno dormono trenta rugbisti, scelti nella crema del rugby under 18 lombardo, emiliano e ligure: sono i ragazzi dell'Accademia, la struttura cui la federazione rugby affida le speranze di un salto di qualità nei percorsi formativi della pallaovale nostrana. Il rugby che si insegna nei club di appartenenza, quelli dove questi ragazzi hanno mosso i primi passi, non basta più. Quindi via da casa, e inevitabilmente anche via da scuola. Il Leone XIII sarà il loro convento.
Al Leone i ragazzi mangeranno dormiranno, si alleneranno. Nove vi andranno anche a scuola, proseguendo i loro percorsi di liceo classico e scientifico: mentre gli altri di giorno raggiungeranno le scuole esterne, per rientrare in istituto appena finite le lezioni. Per giocare serve un campo, quei cento metri con i pali a forma di H, destinati a intridersi di sudore. Ma al Leone un campo da rugby non c'era. Però lo stanno costruendo, e sarà pronto a fine settemrbre.
Che uno sport dove tra le regole base non c'è il «porgere l'altra guancia» sbarchi in un liceo di gesuiti può lasciare spiazzati. I cultori della materia, a dire il vero, potrebbero citare un affascinante precedente letterario della commistione tra fede e pallaovale: il reverendo Harold Pinker, che nella saga del maggiordomo Jeeves, tra una predica e l'altra giocava pilone negli Harlequins (e la sua specialità pare che fosse «retrocedere fintando»). E portando i ragazzi dell'Accademia a vivere al Leone i tecnici federali hanno voluto probabilmente mettere alla prova uno dei postulati di questo sport: e cioè che l'asprezza dei contatti sia tollerabile solo in quanto governata dalla lealtà reciproca.
Hanno trovato terreno fertile nella cultura gesuita del Leone: cultura che in Italia, a Padova, ha prodotto un precedente assai illustre, il Petrarca che per anni dominò la scena nazionale del rugby. «Che lo sport sia anche uno strumento di crescita umana e spirituale noi lo pensiamo da sempre», dice padre Vitangelo Denora.

«Certo, questi ragazzi a vederli sono degli armadi. Ma credo che per i nostri studenti vedere la loro vita, sapere che si alzano alle cinque e mezza per allenarsi prima di andare in classe, possa spingere a porsi buoni interrogativi».

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