Una questione d'interesse, di denaro. Se i carabinieri del nucleo investigativo sono arrivati in poco tempo a una cerchia molto ristretta di sospettati per l'omicidio dell'orefice Gianni Veronesi è proprio perché hanno capito subito che non si trattava di una rapina in senso stretto, messa a segno da uno sconosciuto. Bensì di una questione privata tra persone che si conoscevano, degenerata in una lite inattesa e violentissima e poi addirittura in un omicidio commesso in un momento di rabbia incontenibile. Persone - Veronesi e il suo omicida - che trattavano affari in comune. L'assassino non è entrato nello studio-negozio per uccidere, ma poi ha finito per farlo. E, prima di andarsene, oltre all'hard disc del circuito di telecamere interne, si è portato via anche dei preziosi. Per questo gli investigatori pensano che Veronesi sarebbe probabilmente ancora vivo se avesse ceduto alle richieste - lecite o meno - del suo aggressore mortale.
Gli inquirenti sono certi che l'uomo che ha infierito sul cranio del povero Veronesi avesse un disperato bisogno di denaro. O, comunque, di concludere un affare, magari facendo uno scambio di merce con l'orefice, ottenendo da lui una cifra su cui contava parecchio. Insomma: l'omicida si aspettava qualcosa che Veronesi non gli ha dato e da lì è scoppiata la sua ira incontenibile. Eppure si conoscevano bene. L'anziano orefice, che mai riceveva un cliente senza indossare la giacca è andato ad aprire al suo assassino in maniche di camicia.
Negli ambienti investigativi, dove ieri è stata pubblicamente smentita - almeno per il momento - l'esistenza di un unico sospettato, si lavora febbrilmente: l'assassino a breve potrebbe avere un nome e un cognome. Tuttavia i carabinieri ci vanno cauti.
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