I francesi in città tra rabbia e paura «Noi sotto attacco»

La comunità d'Oltralpe a Milano stretta attorno alla parrocchia «L'incubo di Parigi vissuto in tv»

Niente fiori, cartelli, lumini. Il dolore dei cattolici francesi è sobrio, minimale, composto. Se ne stanno stretti attorno all'altare della parrocchia Mater Amabilis, quartiere altoborghese a due passi da piazza Amendola. Nelle prime file dei banchi i ragazzini intonano l'alleiua, partecipano alle letture della messa di oggi. Applicano già l'appello che proprio ieri mattina, prima della celebrazione, il vicario episcopale monsignor Luca Bressan ha portato loro: «Di fronte alla violenza assurda e spietata di Parigi niente vendetta né disperazione o meschino calcolo, ma preghiera». Pregare uniti «per dare un contributo responsabile all'umanesimo» e «per la pace dentro una società plurale»: questa l'esortazione, pronunciata in un momento d'incontro che ha visto a sorpresa anche la presenza di Sergio Yahe Pallavicini, imam della moschea di via Meda e vicepresidente del Co.Re.Is, la comunità islamica italiana (che intanto, sulla pista antisemita per l'aggressione all'ebreo ortodosso Nathan Graff, dice: «Per ora è un vile attacco alle spalle di un cittadino milanese della comunità ebraica»).

Non è una messa come le altre, in questa prima domenica dopo che i terroristi hanno spostato uno dei fronti di guerra a Parigi. Alla fine della celebrazione don Luigi Quaranta, che da tre mesi è arrivato dalla capitale francese a guidare la parrocchia, cammina lungo la navata verso l'uscita e si ferma ogni mezzo metro: stringe mani, dà pacche sulle spalle, accarezza le teste dei bimbi. Ce n'è una imbronciata, lui gli affonda il dito sulla guancia, le tira su le labbra per indurle un sorriso. «Non è uno choc per i francesi, è uno choc dell'“umano“, che va oltre la religione, la lingua, la politica. Ma serve speranza», dice.

Una donna con i tre figli- tutti con i suoi stessi, azzurrissimi occhi - scende veloce le scale all'uscita della chiesa: «No guardi, noi vivevamo a Parigi fino a un anno e mezzo fa, è troppo presto per noi per parlare, davvero meglio di no», dice il marito, rispondendo per lei alle domande, gli occhi bassi di chi sa che se apre bocca potrebbe pentirsi. Ci sono anche italiani, come la signora Gabriella, sulla cinquantina: «Abito in zona ma in genere non vengo a messa qui. L'ho fatto oggi perché ha un significato particolare, volevo dare la mia solidarietà ai francesi». Chi parla sono i trentenni, quelli che il teatro Bataclan lo conoscono e frequentano, che hanno visto i loro coetanei morirci dentro e si portano dentro la consapevolezza tremenda che sarebbe potuta toccare a loro: Camille e Tiphaine sono rientrate in Italia da Parigi sabato pomeriggio. «Ero a casa di amici fuori città, alcuni di loro conoscevano dei ragazzi uccisi lì. Abbiamo saputo dalla tv quello che stava succedendo. Ma il problema è che ancora non tutti sono stati identificati», dice la prima. Tiphaine è più arrabbiata: «Se ci aspettavamo nuovi attacchi dopo Charlie Hebdo? Non di queste dimensioni. Il problema è che chi ci attacca sono persone apparentemente come noi: non hanno la barba lunga da talebani, sono ragazzi vestiti uguali a noi, in mezzo a noi.

Quindi come si fa a riconoscerli? È questo che fa paura, anche perché nel frattempo Hollande ha tagliato i soldi per la difesa e ha preferito buttarli altrove». Tira in ballo la colonizzazione, e da lì la mancata integrazione. Eccolo, il nodo da sciogliere, il problema globale da cui nasce la guerra globale.

Twitter @giulianadevivo

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