"Imitavo Leopardi, ma poi ho incontrato la bellezza del dialetto"

Il poeta milanese Franco Loi: "Mi sono accostato ai versi dopo un'esperienza tormentata nel teatro"

"Imitavo Leopardi, ma poi ho incontrato la bellezza del dialetto"

Franco Loi (1930), pur essendo nato a Genova, è considerato l'ultimo poeta milanese che ha utilizzato il dialetto come lingua autonoma, quella che ha imparato a contatto con i contadini, gli operai, le donne del popolo, quando andava al verzé.

Il suo incontro con la poesia è avvenuto dopo le letture di Franco Porta e Gioacchino Belli, dai quali ha ereditato il romanzo in versi. La sua prima raccolta risale al 1967-68, ma soltanto nel 1975, Einaudi pubblicherà «Strolegh», a cui farà seguire: «Theater», «L'Aria» e «Aria di memoria», con poesie scelte dal 1973 al 2002. Gli abbiamo chiesto come sia nata la sua vocazione per la poesia dialettale milanese.

«A dire il vero, il mio incontro con la poesia è avvenuto dopo una esperienza teatrale alquanto tormentata. Io considero il teatro il genere più importante per promuovere una coscienza sociale. Fu nel 1963 che venni invitato a scrivere un testo teatrale da Virginio Puecher, allora assistente di Strehler, con una certa autonomia, che doveva andare in scena al Piccolo Teatro. Erano gli anni in cui, a Milano, si faceva un cabaret intelligente, quello di Franco Nebbia e del duo Valeri-Caprioli. Pensai a un titolo che mi richiamava alla memoria Opla, noi viviamo, il capolavoro di Toller, che io trasformai in Opla, Bandiera Rossa, dove si parlava di fabbrica e dove passavo in rassegna personaggi come Chruscev, Kennedy, Papa Giovanni, vestito da cuoco, Craxi, Saragat. Utilizzavo il grottesco e il testo apparve alquanto irriverente, tanto che Paolo Grassi decise di non rappresentarlo. Lo lessero anche Dario Fo e Franco Parenti, ma non se ne fece nulla, perché avevo di mira, io uomo di sinistra, sia il partito comunista che quello socialista».

Così decise di utilizzare il romanzo in versi?

«Cominciai a scrivere in italiano, imitavo Leopardi, D'Annunzio e, soprattutto, Pascoli. Però mi accorsi che quel linguaggio era invecchiato e che bisognava tornare alle origini, ovvero al dialetto».

Ricordo che Franco Brevini scrisse: «Franco Loi non ha scelto il milanese, ma è stato scelto».

«Anche Dante Isella (1922-2007), il grandissimo filologo, studioso della Linea Lombarda, si interessò ai miei versi, per me fu una vera e propria consacrazione. Grazie ai suoi consigli, cambiai persino la grafia, la resi più leggibile e più accessibile. Il dialetto era legato a mie esperienze personali, era un mio modo di aderire alla materia che trattavo, alla mia appartenenza sociale, alla mia stessa tonalità».

Dante Isella diceva che la gente del popolo, quando parla, è più attenta ai suoni che ai significati.

«Se D'Annunzio sosteneva il valore del verso, io ho sempre sostenuto il valore del suono».

Ricordo che Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah dedicarono alla poesia dialettale un incontro dal titolo: «Milano e Roma nella poesia di Carlo Porta e Gioacchino Belli». Lei ebbe come argomento: «La poesia dialettale milanese», insieme a Giancarlo Vigorelli e Guido Bezzola.

«Lei fa bene a ricordare quei nomi, io, invece, ricordo benissimo quella serata-spettacolo con Isella che presentava e con Franco Parenti e Antonello Trombatori che leggevano i versi. Dulcis in fundo, Eduardo lesse le sue poesie in dialetto Pari e dispari, col teatro esauritissimo, molta gente era rimasta fuori».

La sua collaborazione con Franco e Andrée continuò ancora?

«Nel 1980 fu ideata una serata dal titolo Alla ricerca della Milano perduta. Dante Isella presentò: L'è el dì di mort, alegher, di Tessa, mentre Vigorelli presentò il mio Strolegh, il Pier Lombardo era una vera fucina di idee. Successivamente, Andrée mi propose la riduzione del testo di Calderon, che intitolai: La vita, il sogno e che la Shammah realizzò al Castello Sforzesco, con grande successo di critica e di pubblico».

Ricordo che anche un suo poemetto: «L'angel» divenne uno spettacolo, con Giovanni Crippa.

«Portare in palcoscenico la poesia è un lavoro difficilissimo, Giovanni scelse dei brani e raccontò la vita di un uomo, dall'infanzia alla maturità, che somigliava alla mia».

Diciamo che il teatro, la sua prima passione, l'ha attraversato in maniera diversa.

«Facendo ricorso alla poesia, quella in dialetto, che per me costituiva una forma di sperimentazione continua».

Cosa consiglierebbe ai giovani poeti di oggi?

«Il mondo verbale, in cui siamo immersi oggi,

si misura con la degradazione dei significati. Chi sceglie di essere poeta, deve possedere una lingua propria, fatta di ambiguità e allusioni. La vera poesia si consegna nuda al linguaggio che ha il compito di rivestirla».

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