«Io poliziotto killer Così sono passato dalla parte dei boss»

I rapporti tra agenti e gangster nel racconto di Giorgio alla mostra col nostro inviato

A Milano il bianco e nero delle foto di una grande mostra racconta gli anni ruggenti della criminalità, il lungo scontro tra polizia e malavita. Ma nelle foto, in realtà, c'è anche il grigio. E una grande zona grigia attraversava anche gli schieramenti di quegli anni. C'erano bravi poliziotti e gangster irriducibili; e a metà strada, i poliziotti corrotti e i delatori, gli infami, i canterini, i personaggi di una terra di nessuno dove le leggi dello Stato e della «mala» valevano poco o nulla.

Giorgio Tocci è stato prima un poliziotto, poi un poliziotto corrotto, poi un criminale a tempo pieno, poi un killer spietato, poi un pentito. Nelle sale di Palazzo Morando, dove la mostra è ospitata, vede scorrere in flash back una parte importante della sua vita: i questori che ha avuto come capi, i night dove passava le notti, i boss con cui è sceso a patti. Come Angelo Epaminonda, «il Tebano», il re delle bische. Quando Epaminonda fu arrestato e rinchiuso nella caserma di piazza Sant'Ambrogio, fu Tocci a portargli a cena l'aragosta e lo champagne che il boss aveva ordinato. «Me lo aveva chiesto - racconta - il mio amico Ennio Gregolin, un maresciallo all'epoca famoso. Io ero riluttante, perché nei giorni precedenti avevo parlato a lungo con Epaminonda in cella, ed era chiaro che si preparava a collaborare, e sicuramente inguaiava anche noi. Alla fine mi feci convincere, andai in un ristorante in via Marcona e presi l'aragosta. Credo che qualcuno poi aggiunse anche un po' di cocaina. Andò a finire come previsto: Epaminonda si pentì, e noi finimmo in galera»:

Ma come si entra nella zona grigia, che aria si respira? «Una volta i poliziotti frequentavano lo stesso mondo dei balordi. Era un bene, perché venivi a sapere un sacco di cose, ma era un'arma a doppio taglio, perché entravi in confidenza, scambiavi favori con favori. Un po' alla volta i favori diventavano più grossi, e alla fine eri uno di loro». Quanti erano i poliziotti corrotti, ai suoi tempi? «Spero non tanti». Nella zona grigia c'erano anche altri? Giudici, politici? «Non credo che senza le coperture adeguate i clan potessero spadroneggiare come facevano a Milano in quegli anni. Io Epaminonda avrei potuto arrestarlo mesi prima, avevo saputo sotto che nome si nascondeva a Milano 2. Ma dalla questura non mi diedero il permesso di forzare la porta. Ancora non so perché».

«Questo era un bravo ragazzo, lo ammazzarono senza motivo», «questo prendeva soldi», «questo era uno spaccone». I volti della mostra riportano Tocci indietro di quasi quarant'anni, quando nella «Milano da bere» fiumi di soldi allegri scorrevano senza argini. «Avevo confidenti importanti, ma i nomi non li ho fatti e non li farò: non li metto in pericolo, fin quando loro non mettono in pericolo me. Ma posso garantire che qualche leggenda della Milano nera crollerebbe: grossi personaggi, grosse famiglie».

Perché un criminale di spessore scegli di «soffiare» a uno sbirro? «Per tanti motivi. Per eliminare un rivale, per esempio. O per avere a sua volta delle dritte. O per contare su un trattamento di favore quando ce ne sarà bisogno». Lei come li convinceva? «La malavita e il malavitoso vivono di immagine, di prestigio. Un capo ci tiene al suo status, e allora bisogna intaccarne lo status davanti ai suoi uomini, scalfire il mito. Così io lo caricavo in auto con la scusa di un controllo in questura, invece lo portavo al Parco Lambro e gli dicevo: se tu non mi dai una dritta" al mese io continuo a fermarti, e la prossima volta ti picchierò selvaggiamente davanti ai tuoi uomini». Funzionava? «Abbastanza».

Una malavita milanese non esiste più: l'ultima generazione si autodistrusse in una faida furibonda, e chi non venne ammazzato finì in galera. Tocci fu uno dei protagonisti di quella guerra, «purtroppo ho ucciso molte persone». A innescarla fu Franco Coco Trovato, boss calabrese: «Un esaltato e un pavido, un sanguinario mentale che credo non sappia neanche sparare». Ma anche in quella guerra finale si respirò un clima obliquo, grigio: perché in tanti si pentirono, o finsero di farlo. «Il primo fu Tonino Schettini, un napoletano che era il vero cervello del gruppo di Coco.

Fin dall'inizio si era deciso che se le cose fossero andate male, ci saremmo tutti fatti passare per pentiti per schivare almeno l'ergastolo. Doveva iniziare Schettini, e tutti dietro. Poi qualcuno seguì il progetto, qualcuno non se la sentì».

Lei perché si è pentito? «Io, in fondo, alla malavita non ci ho mai davvero creduto».

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