Demetrio Albertini (Besana in Brianza, 23 agosto 1971), grande centrocampista passato dal pallone alla scrivania senza soluzione di continuità. Al Milan 1988-2002 (parentesi al Padova), 426 presenze, 28 gol, 5 scudetti, 3 Champions League, 3 Supercoppe italiane e una Europea. A fine carriera ha conquistato la Liga col Barcellona e la Coppa Italia con la Lazio.
Demetrio Albertini, solida razza brianzola.
«Di Villa Raverio, comune di Besana in Brianza. Papà muratore, mamma casalinga, tre figli maschi. Una famiglia molto unita e semplice che viveva intensamente il paese. Le distanze si sono ravvicinate ma allora Milano per me era come New York. Sono venuto per il calcio».
L'inizio all'oratorio, immagino.
«L'oratorio era il nostro stadio, con una porta vera, altrimenti usavamo quello che capitava. Io giocavo anche da solo contro il muro, avevo una grande passione».
I paesi, un luogo di vita e socialità.
«Le racconto questo. Torno a casa due giorni dopo la finale del Mondiale '94. Mi avevano costruito, all'ingresso del paese, una specie di porta/arco di compensato. Tre giorni dopo sul campo dell'oratorio giochiamo una partita, la mia leva, classe '71, contro il resto del paese».
In Usa la finale è andata male.
«Ma questa l'ho vinta».
Suo padre è stato il primo allenatore.
«Mi ha sempre seguito, come ha fatto con i miei fratelli. E se giocavo male non faceva come gli altri genitori urlanti attaccati alla rete. Lui fischiava. Lo distinguevo nettamente».
Anche lei, come altri aspiranti campioni faceva un viaggio per seguire il suo sogno.
«Due chilometri a piedi, un treno e quattro mezzi per arrivare a Linate. Uscivo alle 6,30, prima la scuola. Un vicino di casa, talvolta, mi dava un passaggio al ritorno altrimenti tornavo alle 21,30. Una cosa così si fa solo per passione. A quell'età nessuno ti dice vincerai, guadagnerai, diventerai famoso. Non parlo di sacrifici ma di rinunce. Gli amici facevano le castagnate, le gite sulla neve. Io i tornei».
Il passaggio a Milanello, poi Padova.
«Otto mesi. Dopo, mia mamma credeva che tornassi a casa invece ho detto: vado a vivere da solo. C'è rimasta male. Ho preso casa vicino al Leone XIII».
Com'era la vita a Milano?
«Formativa. Ho dovuto cercare un equilibrio che a vent'anni è difficile, specialmente se sei affermato, famoso e con disponibilità economica. Cominci a vivere da adulto senza esserlo».
Birichinate?
«Qualcuna. Però quello che mi mancava era andare in centro a prendermi tranquillamente un gelato senza venire assalito. Lo dissi a un giornalista e fece il titolo lo stressato del calcio. Mi sono vergognato».
Vita notturna, locali?
«Mai piaciuti. Piuttosto ristoranti. Mio papà diceva: l'amicizia si consuma a tavola. Alcuni erano rifugio e protezione: la Torre del Mangia, la Nuova Arena da Gianni. Un mondo che ho sempre amato. Ho conosciuto i grandi cuochi quando ancora non erano star. Giancarlo Morelli, Nadia Santini, con cui ho una foto mentre stappiamo lo champagne alla mia festa d'addio, Davide Oldani. Sì, ho anche amici interisti. E poi ho cominciato ad andare per cantine: la prima a 22 anni, Villa Russiz in Friuli. Non ho più smesso».
Siamo andati troppo avanti. Esordio con Arrigo Sacchi.
«Il 15 gennaio '89. Milan-Como. Entro sul 3-0. C'era un po' di nebbia e non vedevo il secondo anello, San Siro mi pareva più piccolo. Arrigo mi ha trasformato da calciatore a giocatore di calcio. Un conto è calciare bene la palla, un altro giocare nel contesto di una squadra importante».
Fabio Capello?
«Ha avuto il coraggio di farmi titolare in quel Milan straordinario che ha vinto tutto. Forse ci manca qualcosa ma il calcio è meritocratico. Chi non merita non vince».
Il segreto di quel gruppo?
«Allenamento, senso di appartenenza, rispetto reciproco. Non ci cullavamo mai nel successo, pensavamo al giorno dopo».
Amici?
«Con Billy e Paolo possiamo non sentirci per mesi ma quando succede sembra che stiamo giocando ancora insieme».
Costacurta e Maldini hanno concluso con il Milan.
«Era anche il mio sogno. Però se tornassi indietro rifarei tutto, il cambiamento dà tante opportunità. Ho vissuto il Milan come una seconda famiglia. Andando via ho capito che potevo vivere la pressione diversamente, da professionista».
Il «dopo» l'ha mai spaventata?
«No, perché me lo sono trovato. A marzo 2006 ho organizzato la mia partita d'addio, a maggio ero vice commissario in Federcalcio. Una nuova sfida, la stessa paura di perdere. Il cambiamento nasce sempre dalla paura; ti aiuta, a 22 anni, a tirare un rigore al mondiale, ti insegna ad affrontare il diverso».
Mai pensato alla panchina?
«Fare l'allenatore è una missione. Per mettere d'accordo 25 giocatori devi essere un responsabile delle risorse umane prima di uno stratega. Da dirigente c'è più mediazione».
Ora è presidente del Settore Tecnico della Federcalcio e imprenditore.
«Un ruolo di servizio per la valorizzazione di tutte le figure di un club, dall'allenatore allo scout. Poi c'è la società che porta il mio nome, si occupa di sviluppo dello sport e marketing. Sono stato tra i primi a capire la potenzialità del padel. I campi di City Life li ho fatti io e ho altri due centri».
È sempre stato un giocatore pensante.
«Diciamo che sono stato obbligato a pensare. Ero talmente lento che dovevo arrivarci prima con la testa».
Nel suo studio ha il muro di maglie conservate da papà Cesare.
«Tre anni fa, quando ha cominciato a stare male, prima che mancasse, gli ho chiesto che fine avessero fatto le magliette che gli regalavo. Le aveva conservate tutte, piegate in una borsa, aveva custodito la mia storia».
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