«La quarantena operativa vale anche allo specchio, mai lasciarsi andare, non mettersi la camicia più bella, non radersi. Bisogna fare come le donne di classe che si truccano e mettono il rossetto anche per uscire a gettare la spazzatura. Diego Dalla Palma non sarebbe un celebre curatore d'immagine (oltre che scrittore e conduttore tv: dal 20 aprile va in onda su Rai Premium con la quarta serie di Uniche) se la pensasse diversamente: immaginarlo trascurato, steso su un divano come Homer Simpson, è proprio impossibile.
Dove passa questo periodo di quarantena?
«A Selvazzano, provincia di Padova. Ormai vivo qui, a Milano vado solo per lavoro, e adesso certo non posso. Qui ho una casa molto grande, con un magnifico parco. Siamo in tre: io, la mia governante e il mio assistente personale. Non mi annoio: sto arredando la casa, me la prendo con calma, ogni giorno cambio idea, sposto, immagino».
Ci vuole pazienza.
«Nel corso degli anni ho imparato il valore della pazienza. Se manca, si diventa dei vecchi rompicoglioni. Ma queste giornate sono purtroppo piene di amarezza. Ho perso tre amici per colpa del coronavirus, a Bergamo e Milano. Ci penso, provo dolore. Non riesco a concentrarmi come vorrei. L'amarezza rende tutto più malinconico, anche fare la pipì».
Come si informa?
«Guardo un tg al giorno e leggo i quotidiani che mi faccio portare. Solo le pagine che mi interessano, non sono come quei lettori che non perdono una riga. Anche un libro, se nelle prime pagine non mi convince, lo pianto lì senza problemi. Per rilassarmi e avere un pizzico di speranza, non mi perdo una puntata di Geo & Geo. Mi commuove, mi da un senso di leggerezza di cui ho bisogno».
Niente musica?
«Ho appena finito di ascoltare Dionne Warwick, parole e note che trasmettono armonia e luce. Non amo la musica che vuole farci pensare, intrisa di denuncia sociale».
Lei, che scrive, starà leggendo un libro?
«Sì, sto finendo Storia di una donna, biografia di Anna Magnani scritta da Matteo Persica. Amo le figure femminili come la Magnani, mi sto gustando pagina dopo pagina. Ma le confesso che in generale non ho più molta voglia di acculturarmi. A chi la lascio la mia cultura? A cosa mi serve?».
La cultura serve sempre, anche ad affrontare i dolori...
«Questo è vero. Ho avuto molte pene d'amore, nella vita, e tanti momenti difficili. Ma non ho mai dato retta agli amici cretini che per dimenticare mi invitavano alla spensieratezza, alle risate, alle battute. Sarei stato peggio. Ogni volta mi sono immerso in letture che mi portavano nelle profondità del dolore: alla fine stavo meglio».
Che idea si è fatto di questa pandemia?
«Forse è un disegno, non arrivo a dire divino, ma legato agli equilibri offesi della natura. Tutto è cambiato, i forti sono diventati deboli, c'è un mondo prima del coronavirus, ce ne sarà un altro dopo. Io continuo ad accarezzare le piante, come facevo da bambino, nelle mie terre d'origine, la malghe dell'altopiano di Asiago. Esco nel mio parco, tocco, annuso, abbraccio gli alberi, alla ricerca dell'armonia universale».
Diceva che in quarantena conta lo specchio.
«Sì, un conto è l'introspezione malinconica, un altro la rassegnazione che devasta: è addirittura peggio del virus. Bisogna specchiarsi, profumarsi, fare ginnastica, stare su con le spalle, evitare di girare in pigiama per casa con la bocca spalancata e il mento che cade verso il petto. Ci è maestro Charles Aznavour: fino all'ultimo ingannava l'età curando la forma e l'apparire, che sono sostanza».
La prima cosa che farà il benedetto giorno che torneremo alla normalità?
«Sono due. La prima è correre a teatro, anche a vedere una stupidata.
Seduto in poltrona mi pare di dare un senso alla vita: sarà perché da giovane ho fatto lo scenografo, e quando si alzava il sipario sul mio lavoro mi mettevo a piangere dall'emozione. La seconda è fare l'amore. In questo periodo non ho nessuno, devo accontentarmi delle fantasie. Vorrei un po' di realtà».
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