Giovane, bravo e bello. E, infatti, lo chef Roberto Valbuzzi è ormai una presenza fissa in tivù in tante trasmissioni, a cominciare dalla Prova del cuoco al fianco di Antonella Clerici. Talentuoso, professionale e capace di far dire «wow» alle signore.
Più bravo o più bello?
«La bellezza è un'arma a doppio taglio, rischi di essere etichettato solo per quello, devi far capire che oltre le gambe c'è di più.... Metto sempre grande impegno per trasmettere la passione per la cucina e per i prodotti della terra, buoni e sani».
Lei utilizza molti prodotti della sua azienda agricola.
«Il punto fondamentale è imparare a rispettare il cibo e la natura. Le piccole cose semplici, un pomodoro puoi comprarlo da fornitori selezionati, oppure coltivarlo, comprendendone molto meglio il valore. Va capito che dietro al prodotto di qualità ci sono la fatica e l'impegno necessari per ottenerlo. Se una pianta muore ti dispiace, questo è un valore della cucina».
Vado a vivere in campagna...
«Quando porto la frutta alle galline, capisco il loro ciclo di vita. Vivere i tempi della natura è il vantaggio vero. Mi reputo molto fortunato nel poter vivere questi momenti. Il mio hashtag #notordinarychef significa che sono un cuoco che non sta solo in cucina, ma che vive e rispetta i prodotti che utilizza. Allevo i miei maiali da quando sono piccoli a quando diventano salami. Potrà sembrare crudele, ma non è così se c'è rispetto. Questo è la vita contadina che ho imparato dai miei nonni».
Oggi la sana alimentazione sta diventando una priorità dei consumatori.
«Giusto, non si deve avere per forza una fattoria per rispettare gli alimenti, possono farlo tutti. Noi del settore abbiamo il dovere di dare informazioni corrette sul cibo, sui prodotti di eccellenza che siamo in tanti a produrre con fatica e passione, in tutta Italia. Un valore che deve essere tutelato. Come consumatori dobbiamo scegliere bene, imparare a leggere le etichette, a scegliere prodotti italiani, senza additivi, primi passi importanti».
È anche una questione di prezzo?
«Troppo spesso si sceglie solo in base alle offerte. Le catene di distribuzione dovrebbero favorire i piccoli produttori che si alzano all'alba per produrre eccellenza, proponendola al giusto prezzo».
Milano è la nuova capitale del food?
«Ha opportunità non indifferenti, attrae investimenti e i consumatori milanesi dimostrano una spiccata sensibilità. Milano è capitale della moda e del design perché ne traccia le tendenze, può diventarlo anche del food grazie al lavoro dei tanti chef presenti che identificano e precorrono le novità nell'interpretare il cibo. Tutto sta a trovare la chiave giusta».
I suoi indirizzi milanesi?
«Qualche anno fa pensavo di trasferirmi a Milano per stare al centro dello sviluppo, ma non lontano dal mio ristorante a Malnate. Ora la mia filosofia è molto cambiata, mi piace venire a Milano con gli amici nei locali da tutti i giorni come Al Mercato Burger Bar o Mangiari di strada. Ma con la mia fidanzata preferisco stare a casa. Vivo in un luogo bellissimo con gli uccellini che cantano al mattino e le uova delle mie galline. Un posto dove ho ciò che desidero. Sono spesso in viaggio, ma tornare a casa è quello che mi rende felice»
Il sapore della sua infanzia?
«Sono cresciuto con i nonni, i miei genitori erano impegnati al ristorante che io chiamavo casa perché era lì che li vedevo. E quando con il nonno portavo la verza o la cicoria da mamma e papà, aprivo la porta della cucina di due dita e papà diceva non entrare è pericoloso. Così restavo lì a sbirciare, era il mio modo di stare con loro».
Il sapore?
«Il sapore è lo zabaione della nonna con due tuorli, due cucchiai di zucchero e un goccio di grappa. Mi svegliava senza complimenti accedendo la luce, ma il nervoso mi passava con il primo cucchiaino. Con il nonno andavo a pascolare le pecore, stavamo là, seduti sotto l'albero e lui, col dorso del bastone, mi spaccava le noci. Oggi hanno 81 anni nonno Luciano e 75 nonna Gisella, sono i genitori di mia mamma Maria Vittoria».
Quando ha capito che la cucina era il suo futuro?
«La passione mi è venuta sbirciando da quella porta mio papà Leonardo, sono diventato cuoco per stare con lui, poi l'alberghiero, ed eccoci qua».
È goloso?
«Un debole per le erbe aromatiche, rosmarino, salvia e basilico».
Il pranzo che non dimenticherà mai?
«Il Natale che abbiamo deciso di restare chiusi e ho cucinato per tutta la famiglia e solo per loro: per la prima volta un pranzo natalizio seduti tutti insieme».
Con quale piatto ha conquistato la sua fidanzata?
«Un mio hamburger, spaziale, con salsa alle mele verdi e cipolle rosse».
Che consiglio dà ai giovani che vogliono fare il cuoco?
«Essere umili e saper ascoltare, cosa difficile quando pensi di saper fare anche solo una buona pasta al pomodoro e ti accorgi, invece, che devi ancora fare molta strada. Per fare questo mestiere devono avere grande volontà, consapevoli che si fa fatica e si fanno molti sacrifici».
E il vino?
«Sono sommelier e mio papà è geloso perché dice che ho il naso assoluto ,anche se lo alleno meno di lui. Una volta ho stupito l'enologo di Antinori per aver percepito un sentore di ulivo che neanche lui aveva colto. Mi viene naturale associare ai profumi dettagli della memoria. Vino e cibo sono due piaceri separati, si possono godere insieme come in un matrimonio perfetto o singolarmente senza perderne la bontà».
Il suo luogo del cuore?
«Monterecchio, sopra Luino, le estati con i nonni e poi tutta la Sardegna per i profumi e per ciò che ti regala l'ambiente».
La cena romantica è ancora vincente?
«Decisamente sì. Ma può anche essere un panino sul prato con un bel tramonto».
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