In questi giorni sono sulle prime pagine dei quotidiani due vicende apparentemente non collegate tra loro, anche se ambedue inesorabilmente italiane. Due storie che, aldilà delle apparenze, riguardano entrambe Milano: si tratta dell'interminabile agonia di Alitalia e dell'eterna e mai realizzata proposta di riforma della Rai, costata ora la testa a uno dei più stimati giornalisti italiani, Carlo Verdelli. Il collegamento fra queste due incongrue vicende è rappresentato, infatti, dal ruolo di Milano e della Lombardia nei programmi e nella vita di queste due aziende: pubblica la Rai, ex-pubblica e sovvenzionata l'Alitalia.
Cominciamo dalla prima. I fatti sono noti. Verdelli, nella sua veste di direttore editoriale incaricato della riforma, aveva proposto fra l'altro: 1) il trasferimento del Tg2 a Milano; 2) l'accorpamento delle redazioni regionali con quella di Rai News 24; 3) la soppressione delle venti redazioni regionali accorpate in quelle di poche macroregioni. Apriti cielo! Soprattutto il primo punto rappresenta per la romanissima, dialettale emittente di Stato un tabù inviolabile. Solo a parlarne si rischia l'emarginazione, l'ostracismo. In questo sono assolutamente e corporativamente concordi e solidali redazioni, struttura aziendale e sindacati. Non meno scandalose e irricevibili sono apparse le proposte numero due e tre. Che sfacciato, che imprudente questo Verdelli!
Passiamo ad Alitalia. La faccenda riguarda il rapporto Fiumicino-Malpensa-Linate, una storia lunga, complessa e contorta che comincia due decenni fa, nel 1996 col decreto dell'allora ministro dei Trasporti Claudio Burlando che definisce Malpensa «aeroporto di riferimento per tutti i collegamenti internazionali e intercontinentali», insomma un hub. A Linate sarebbero restati solo i voli Milano-Roma. Comincia una interminabile e indescrivibile odissea di proteste, ricorsi, lamentele, scioperi, piagnistei, boicottaggi attivi e passivi del personale di volo e di terra, delle compagnie straniere, dei dipendenti del ridimensionato Fiumicino, persino dei sindaci meridionali che considerano addirittura il provvedimento «una penalizzazione del Sud».
Nessun dipendente Alitalia accetta il trasferimento a Milano, gli equipaggi vengono quotidianamente trasportati da Fiumicino a Malpensa o Linate a carico dell'azienda: costi ulteriori. E invece questa scelta «milanese» e «nordica» andava a tutto vantaggio dell'allora compagnia di bandiera, perché spostava il baricentro del traffico nell'area più ricca e popolosa del Paese, dove si vendono i biglietti forse più numerosi, certamente i più pregiati. La cosa è andata avanti così fino all'arrivo di Etihad in Alitalia che ha praticamente del tutto «dehubizzato» Malpensa sulla base della presunzione che chi da Milano deve andare a Pechino parta da Linate per Fiumicino su un volo Alitlia e lì si imbarchi per la capitale del Celeste Impero. Sbagliato. Perché spesso quel milanese lì preferisce, invece, imbarcarsi su un volo Lufthansa o Air France per Francoforte o Parigi e da lì per la Cina. Ma non c'è stato verso: né il ministro milanese Maurizio Lupi,che ha fatto l'accordo con Etihad, né i manager anglosassoni della compagnia araba hanno capito che il mondo non finisce al Grande raccordo anulare e che il traffico più redditizio parte da qui. Risultato: Alitalia di nuovo sull'orlo dell'abisso.
Insomma, in tutti e due questi casi aziende pubbliche o para-pubbliche o sovvenzionate respingono (a loro
danno funzionale e spese) anche solo l'ipotesi di riequilibrare territorialmente la loro attività spostandola in parte su Milano, come d'altra parte richiede l'evidenza quotidiana della realtà nazionale. Peggio per loro.
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