Tassista ucciso, testimoni assenti per paura

Tassista ucciso, testimoni assenti per paura

Paura. A un anno e mezzo dall’assassinio di Luca Massari, tassista, ucciso a calci e pugni per avere investito un cane, nel quartiere di quel delitto feroce e insensato il sentimento dominante è ancora la paura. E la paura imposta dai clan fa irruzione persino nell’aula del processo a due dei presunti responsabili della morte di Massari. Ieri mattina davanti alla Corte d’assise erano convocati tre testimoni, tre abitanti del quartiere che avevano assistito in diretta al pestaggio del tassista. Ebbene, non se n’è presentato nessuno. Uno ha preferito rendersi irreperibile, staccare il telefonino, no rispondere agli inviti della polizia. Gli altri hanno messo nero su bianco, nelle lettere inviate ai giudici, la spiegazione della loro assenza in aula: «abbiamo paura».
Largo Caccia Dominioni, via Ghini, via Antonini: un triangolo di case popolari da sempre regno degli stessi clan e delle stesse prepotenze. La morte del tassista costrinse i cronisti a scoprire l'esistenza di questa enclave di degrado a ridosso di quartieri da quattromila euro al metro. All’attenzione dei media, gli amici degli inquisiti risposero malamente: minacce, insulti, e a un fotografo spaccarono la faccia. Il motivo: in carcere per l’omicidio erano finiti, oltre a Morris Ciavarella, un balordo del Corvetto, anche Piero e Stefania Citterio, rampolli della famiglia che fa da sempre il bello e il cattivo tempo nel triangolo. Intorno agli arrestati era scattata la solidarietà di un bel pezzo del quartiere. Culminata nello striscione esposto nell’anniversario dell’omicidio: «Rispetto per Luca, media bugiardi, giudici omertosi, libertà per Piero e Stefania».
Ciavarella - gravato da prove inoppugnabili - ha scelto la strada del rito immediato: il pm Tiziana Siciliano ha chiesto per lui trent’anni di galera, il giudice Stefania Donadeo ha ritenuto che ne fossero sufficienti sedici. Invece i due fratelli Citterio hanno deciso di affrontare la Corte d’assise, perché giurano di essere innocenti: è vero che il cane investito era di Stefania, è vero che la ragazza si scagliò contro il tassista riempiendolo di insulti, ma a picchiare, dicono, fu solo Ciavarella.
Vero o non vero? L’udienza di ieri doveva servire proprio a fare un po’ di luce, attraverso l’interrogatorio dei primi testimoni oculari del delitto. Ma quando la Corte entra in aula dei testimoni non c’è traccia. Al loro posto, tre lettere arrivate al pm. La prima porta la firma di uno dei Ricotti, un’altra famiglia storica della zona, che fin dai primi momenti indicarono i Citterio come responsabili del delitto, e che per questo si videro bruciata l’automobile: non verrò in aula a causa del panico che mi sta creando questo processo, scrive Ricotti. La seconda porta la firma di un cittadino straniero che dice semplicemente di avere paura, perché lui in quartiere ci vive, e quando lo aveva interrogato la polizia gli aveva assicurato che la faccenda sarebbe finita lì, e invece di accusare i Citterio a viso aperto non ha alcuna intenzione. Ci sarebbe un altro testimone, un giovane che telefonò in diretta al 117 e indicò senza esitazione la targa dell’auto su cui stava scappando l’assassino, ed è l’auto usata da Piero Citterio: ma quell’accusa non vale nulla se non viene ripetuta in aula, e il testimone ha fatto perdere le sue tracce.
Seduti sul banco degli imputati, accanto ai loro legali, i fratelli Citterio ascoltano senza emozioni apparenti il pm che racconta ai giudici quanto sta accadendo: e che non è destinato a fare una bella impressione sui giurati. Stefania è da qualche tempo ai domiciliari: bionda, pallida. Piero è ancora in carcere. La sua è la posizione più difficile, perché pochi giorni dopo l’arresto ammise di avere partecipato al pestaggio del tassista, e ora vuole ritrattare la confessione. Per questo chiede di prendere la parola. «Mi addolora la morte di Massari», dice, ma io non c’entro. É vero, ho bruciato io l’auto dei Ricotti, ho picchiato io il fotografo, ma non ho picchiato Massari.

E la confessione? «Furono i vecchi detenuti in carcere a consigliarmi di farla, se no avrebbero arrestato anche la mia fidanzata». L’analisi dei tabulati telefonici sembra sorreggere la sua versione. Basterà a convincere la Corte d’assise?

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