«Sogno che i Paesi di tutto il mondo si uniscano per fermare l'Isis, per evitare che tutto ciò che la mia gente ha sofferto si ripeta». I grandi occhi neri di Nadia Murad Basee Taha raccontano: non c'è bisogno che lei parli. La ventunenne yazida, sfuggita agli orrori dei miliziani dopo tre mesi di prigionia a Mosul, poteva provare a dimenticare le torture e le violenze subite. Invece ha deciso di raccontare la sua storia per denunciare «il genocidio degli yazidi» e chiedere la liberazione di tutte le donne ancora schiave dello Stato Islamico. Le sue parole hanno commosso il mondo: è diventata il simbolo di tutte le minoranze schiacciate dal Califfato. Nadia è stata nominata ambasciatrice delle Nazioni Unite e ha ottenuto numerosi riconoscimenti. Dopo il Premio Sacharov 2016, assegnato dal Parlamento europeo, ha ricevuto il premio internazionale La Donna dell'Anno, promosso dal consiglio regionale della Valle D'Aosta, per essersi distinta come «motore del cambiamento nel mondo, attraverso la sua instancabile azione di condanna di tutti i crimini commessi in nome dell'Islam».
La sua esistenza serena a Kocho, un villaggio nel distretto di Sinjar, in Iraq, è stata stravolta dall'arrivo dei jihadisti dell'Isis nell'agosto del 2014. «Hanno attaccato la mia gente, il popolo yazida e ucciso 5mila tra uomini e anziani, fatto razzia delle loro ricchezze - racconta - Siamo stati picchiati, insultati e seviziati: volevano costringerci a cambiare religione». Quello yazida è un credo antichissimo che contiene elementi di Cristianesimo, Islam e Zoroastrismo che i miliziani condannano, ritenendolo adorazione del diavolo. Nadia ha visto morire sei fratelli e la madre, assassinata con altre ottanta donne sopra i quarantacinque anni, perché considerate troppo vecchie per essere sfruttate. Insieme con altre ragazze, tra i nove e i trent'anni, e bambini, è stata fatta prigioniera e condotta a Mosul: «Ciò che è spettato a noi è stato più difficile della morte». Le è stato imposto il cambio di religione, è stata ripetutamente stuprata, venduta e comprata come schiava del sesso, ha sopportato violenze inaudite. Per due volte ha tentato invano di scappare, finché non ha trovato rifugio in casa di una famiglia musulmana che, anziché denunciarla, l'ha aiutata a raggiungere un campo profughi in Kurdistan. «Grazie a un'associazione sono riuscita ad arrivare in Germania e a raccontare la mia storia».
Da quel momento Nadia non si è mai fermata: traendo la forza dalla terribile esperienza vissuta, ha scelto di fare della difesa del suo popolo la sua missione di vita, «per muovere il mondo occidentale» che non sta facendo abbastanza contro il Califfato. E, nonostante le faccia male ricordare ogni volta tutti i dettagli, ritiene che non sia nulla «di fronte al dolore della mia comunità e dell'intera regione dell'Iraq e della Siria afflitta dalla guerra».
«La mia gente è disperata. L'Isis c'è ancora e continua a distruggere il mio popolo - spiega - Nella mia terra sono state rinvenute quarantacinque fosse comuni piene di cadaveri. C'è terrore: tanti sono ancora sotto sequestro e altri sono scomparsi. Molti sono riusciti a scappare e oggi sono nei campi profughi della Grecia e della Turchia». È voluta andare a incontrarli, Nadia, nel campo di Idomeni: «Cinquantamila persone vivono ammassate in condizioni terribili, mancano tante cose che servirebbero alla vita quotidiana. E tutti sperano che il mondo riesca ad aiutarli». Ha parlato davanti al Consiglio di sicurezza dell'Onu e al Parlamento europeo, ha raggiunto quindici Paesi, tra cui l'Italia, dove è stata ascoltata alla Camera e al Senato, oltre a essere stata ospite del Festival dei diritti umani nel maggio del 2016. Da una parte si batte per chiedere alla comunità internazionale di riconoscere come vero e proprio genocidio i crimini efferati commessi contro gli yazidi e le altre minoranze religiose. Dall'altra conduce una campagna per indurre il mondo musulmano a respingere il Daesh e a condannare gli orrori commessi in nome dell'Islam. Il suo obiettivo è che i musulmani prendano le distanze dalle azioni del Califfato, in nome dei valori della loro fede, e mostrino tolleranza verso gli altri credi. Parla della propria comunità, ma pensa a tutte le minoranze colpite dall'Isis che in Siria e in Iraq sta conducendo una vera e propria pulizia etnica. Per questo Nadia vuole di incontrare il maggior numero possibile di leader mondiali, in particolare nei paesi arabi e musulmani, per promuovere la sua missione umanitaria.
Trasformando la paura in coraggio e nonostante le ferite che non si possono rimarginare, Nadia ha preso sulle sue gracili spalle il peso enorme di un popolo sterminato e violentato «perché ciò che è accaduto non si può dimenticare e non si deve ripetere». E non si darà pace, dice, «finché il Califfato non verrà fermato».
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