Nel marzo 1948, dopo sei anni di servizio nelle forze britanniche, partii dall’Italia per la Palestina rispondendo alla chiamata dell’Agenzia ebraica di arruolamento nell’erigendo esercito nazionale israeliano. Lo Stato non era ancora proclamato, ma dopo la decisione delle Nazioni Unite, nel novembre del 1947, di spartire la Palestina fra uno Stato arabo e uno ebraico, il ritorno della sovranità ebraica sulla scena internazionale appariva inevitabile.
Un volo della società aerea olandese, l’unica a mantenere contatti con la Palestina, mi depositò all’aeroporto di Lidda, vuoto e oscurato a causa della guerriglia araba, con due autoblindo inglesi schierate all’uscita per finta protezione. Infatti fu un camion, sui cui lati avevano applicato lastre protettive di acciaio, a portarmi a Tel Aviv con quattro altri passeggeri e due coppie di giovani in calzoncini corti. Appena il veicolo si mosse, questi estrassero dai ripostigli le mitragliette sbirciando un nemico invisibile attraverso i finestrini trasformati in feritoie. Nei giorni successivi mi registrai nel nuovo esercito, ricevetti un numero di matricola, incominciai a contattare le nuove autorità militari per proporre la creazione di una unità paracadutista, senza ricevere né risposte, né ordini di servizio.
In Israele regnava la più totale confusione burocratica. I caffè lungo la spiaggia di Tel Aviv erano frequentati da strani personaggi autonominatisi esperti in ogni sorta di specialità bellica, economica, politica e ideologica. Giornalisti da ogni parte del mondo erano venuti ad assistere allo scontro fra una comunità di 600mila anime, mal armata, ancora senza esercito regolare, e 60 milioni di arabi decisi a impegnarsi, a partire dal 15 maggio, giorno della fine del mandato britannico, nella «guerra di distruzione dell’entità sionista». Il segretario della Lega Araba la prevedeva rapida e più «barbara», per i sionisti, di quella di Gengis Khan. In quelle circostanze, solo io non avevo una divisa.
Grazie al comandante della polizia militare, mio collega nell’esercito britannico, scoprii la ragione di questa mia forzata vacanza. Avevo servito in una unità di intelligence inglese incaricata di recuperare, dietro le linee tedesche, militari alleati liberati in Italia dai campi di prigionia dopo l’armistizio dell’8 settembre. In quella unità c’erano volontari ebrei palestinesi noti per la loro affiliazione a due organizzazioni clandestine quanto mai sospette al governo provvisorio ebraico: l’Ezel, braccio armato del movimento guidato da Menahem Begin (che Ben Gurion chiamava fascista), e il Lehi (combattenti per la Libertà di Israele), ancora più radicale dell’Ezel nei confronti dei laburisti che consideravano collaboratori con l’occupante inglese. Ero considerato troppo legato a loro per affidarmi un incarico che ottenni in seguito quando fui inviato in Cecoslovacchia per creare la scuola paracadutista.
Non avendo nulla di meglio da fare, mi proposi come esperto di equitazione al proprietario dell’unica scuderia privata di Tel Aviv: era un personaggio leggendario di nome Gordon, proprietario di un maneggio frequentato, in mancanza di uomini, da donne ugualmente attratte dai cavalli e dal loro proprietario. Manteneva molte amicizie con personaggi arabi per cui mi chiese di accompagnare a cavallo un «esperto» militare presso un suo amico possidente terriero arabo, a una ventina di chilometri a nord di Tel Aviv. Era una proposta pericolosa ma romantica. La sera dell’11 maggio arrivammo a casa di un signorotto arabo (in seguito trovato nei suoi campi con la gola tagliata: punizione tradizionale inflitta ai collaboratori).
Il mio compagno parlava perfettamente l’arabo. Si chiamava Eliahu Navi, meglio conosciuto nell’etere radiofonico medio-orientale come Daud el Natur, un «cantastorie» che usava racconti beduini come strumento di guerra psicologica. In seguito sarebbe diventato avvocato, giudice e poi sindaco di Ber Sheva, il capoluogo del Negev. Passammo la notte in casa del nostro ospite, loro due confabulando in arabo, io gustando il cibo che mi aveva offerto. L’indomani ci venne consigliato di andarcene perché nella zona era stata segnalata la presenza di guerriglieri arabi. Ci trasferimmo in una torretta di guardia nel mezzo di un vasto aranceto per trascorrere la notte fra il 13 e il 14 maggio. In un libro di memorie che Eliahu Navi pubblicò nel 1998 e di cui mi fece dono, egli afferma che più volte «pensò di farmi fuori» credendomi una spia. Cambiò idea quando al mattino mi vide pregare avvolto nello scialle tradizionale di preghiera. Convinto che non fossi un elemento pericoloso, ma solo un avventuriero un po’ matto venuto come tanti altri «a vedere la guerra», se ne tornò a Tel Aviv con le informazioni raccolte lasciandomi col mio cavallo, un paio di bombe a mano e una radio militare «per seguire gli avvenimenti»...
Venerdì 14 maggio era una giornata limpida e abbastanza fresca. Nel silenzioso pomeriggio, turbato solo dal cinguettio degli uccelli, dal fruscio degli alberi dell’aranceto, seguivo il corso del sole che si spegneva radioso nel mare non lontano sulla mia destra. Venti chilometri più a sud, prima che arrivasse l’inizio del sabato, nel piccolo museo di Tel Aviv, Ben Gurion lesse la dichiarazione di indipendenza che captai attraverso il gracidio irriverente della radio. Un aereo volò alto sulla mia testa. Mi venne poi detto che bombardò, senza colpirla, la stazione elettrica a nord della città. Io non sentii alcuna esplosione. Sentii però il bisogno di aggiungere alla preghiera della sera la benedizione richiesta quando si fa qualcosa di nuovo - come mangiare una primizia di stagione -. La recitai ad alta voce nel magico silenzio di quel giorno che stava morendo.
La recitai pensando a coloro che a questo giorno avevano sperato per secoli di arrivare e a cui invece non erano mai potuti giungere.
R.A. Segre
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