Appartengo ai referendari storici che hanno promosso referendum fin dagli anni Settanta quando per la prima volta si raccolsero le firme per abrogare i reati di opinione. Nel 1993 contribuii in prima linea al referendum che liquidò la proporzionale. L'anno precedente fui tra i promotori della lista «Referendum-Giannini» che raccoglieva prestigiose personalità fuori dai tradizionali schemi partitici. In breve, ho sempre considerato i referendum, se usati in maniera mirata, armi essenziali per scongelare l'inamidato sistema politico italiano.
Questa volta, però, non firmerò il referendum elettorale perché, se fossero approvati i suoi quesiti, si avrebbe un pessimo risultato sia per i cittadini che per il sistema politico. La mia estraneità, dunque, non deriva da pregiudizio ma dal giudizio responsabile di chi vuole salvare la funzione democratico-costituzionale del referendum. E spiego perché.
È chiaro che l'attuale legge elettorale è negativa al cento per cento, ma è altrettanto evidente che anche il sistema che scaturirebbe dal referendum non sarebbe altro che una «superporcata», ancora peggiore dell'attuale «porcata» sui due punti qualificanti. Il primo riguarda il premio di maggioranza che verrebbe attribuito non alla coalizione delle liste collegate, ma alla lista che da sola otterrebbe il maggior numero di voti, quali che essi siano. Nel 2006 la coalizione di centrosinistra con il 49,8% dei voti ottenne il 55,2% dei seggi alla Camera (348 su 630). Se il referendum passasse, sarebbe possibile che una sola lista, che prende in ipotesi il 35-40% dei voti, conquisti il 55% dei seggi.
Tale meccanismo coltiva l'illusione infantile e giacobina che il sistema dei partiti possa essere radicalmente riformato, passando da 27 partiti a 2, esclusivamente per forzatura elettorale. So bene che i sistemi elettorali influenzano la dinamica dei partiti, ma è cervellotico pensare che possano sostituire del tutto la dinamica politica.
Pochi si rendono conto che la legge che scaturirebbe dal referendum ricalcherebbe la fascistissima «Acerbo» del 1924. Solo che allora il «listone» fascista con il 64,9% dei voti conquistò il 69,9% dei seggi della Camera.
Oggi, invece, basterebbe perfino il 30-35% dei voti per ottenere la grande maggioranza dei seggi.
La seconda questione riguarda l'altro aspetto odioso dell'attuale legge: i deputati non sono scelti dai cittadini ma nominati dai vertici dei partiti che formano le liste dei candidati secondo un ordine prefissato. Il referendum rafforzerebbe la norma perché con più lunghi elenchi di candidati, l'ordine prefissato dai partiti sarebbe ancora più decisivo per l'elezione della singola persona.
Se tutto ciò è vero - e sfido i referendari a smentirmi - è un imbroglio sostenere che il referendum è dalla parte dei cittadini. Conosco anche la teoria del referendum come «pungolo» affinché il Parlamento legiferi. Potrei anche essere d'accordo ma in tal caso si tratterebbe di una distorsione dell'istituto referendario che «stimola» il Parlamento nella direzione sbagliata verso il peggioramento del premio di maggioranza e della norma partitocratrica sugli eletti.
Non v'è dubbio che uno dei nodi elettorali - non il solo - sia la riduzione del numero insopportabile dei partiti. Ma la strada non è quella referendaria che sta provocando la reazione opposta. Le forze maggiori dei due schieramenti dovrebbero, invece, convenire su una qualche riforma che faciliti la semplificazione del sistema. E, magari, riaprire il capitolo del finanziamento pubblico dei partiti che, come è oggi congegnato, rappresenta la vera molla della proliferazione di gruppi e gruppetti che nascono senz'altra ragione che arraffare un po' dei nostri soldi.
La riforma elettorale è urgente, ma il dibattito sul referendum è vuoto perché non porta ad alcuna seria riforma.
Massimo Teodori
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