Rieccoci Ligabue, trent'anni dopo il disco Sopravvissuti e sopravviventi, lei si sente l'uno o l'altro?
«Diciamo che in vita mia non ho corso così tanti rischi da sentirmi un sopravvissuto, ma in questi tempi mi sento un sopravvivente. Sono stati tre anni di m.... Mancava solo quello che è accaduto in Medioriente».
È tornato all'Arena di Verona.
«Come ho detto sul palco ormai ho una brandina qui, in questi anni ci avrò suonato una quarantina di volte...».
In scaletta recupera anche brani come Sarà un bel souvenir o Viva che non suonava da anni.
«Ho quel senso del dovere cattocomunista che mi impone di far contenta la gente».
In effetti nel concerto di lunedì sera in una Arena tutta esaurita (il tour inizia il 14 ottobre al Pala Alpitour di Torino e finisce il 1 dicembre a Messina) il pubblico è stato zitto soltanto per un minuto, il minuto di raccoglimento che Ligabue ha chiesto per le vittime del Vajont e per «la nostra capacità di avere memoria». Per il resto due ore asciutte e potenti con le tre (a volte quattro) chitarre in primo piano di fianco alla voce di questo rockettaro che a 63 anni ha ringiovanito la propria empatia sia sul palco che incontrando i giornalisti. Nuovo Liga, stessa energia. «Ogni sera inizieremo con un brano dal nuovo disco e una introduzione musicale inedita e pensata apposta. E i nuovi brani scelti per aprire lo show sono, manco a dirlo, sette, il numero che torna sempre nella mia vita anche se questa volta è un caso». Il concerto ha la musica al centro e, al centro del concerto, ci sono ben sei canzoni del nuovo disco Dedicato a noi. Una sfida sin dall'iniziale Niente piano B e trovate voi qualcuno che inizi un concerto con un brano appena pubblicato: «Questa cosa che sai già tutto prima di arrivare a uno show ha un po' rotto le palle» spiega nei camerini rivelando di aver preparato una quarantina di pezzi per poter cambiare la scaletta tutte le sere: «Certo, per me dovrebbero essere 130/140 ma per rispetto della band devo limitarmi», dice sadicamente lui, vero «tossico da palco» che sul palco ci sta da dio anche grazie a un pubblico attentissimo e fedele. Tutti cantano tutto, persino la vecchia I duri hanno due cuori oppure la nuova La metà della mela «che è dedicata a mia moglie». A dirla tutta, la platea è parte di uno spettacolo che, anche per questo, è essenziale, suonato molto bene (super Poggipollini) e, soprattutto, in perfetto equilibrio tra presente e passato, tra memoria e bisogno di ritrovarsi spalla a spalla con la propria gente.
Però stare sul palco non è facile.
«In realtà per avere l'applauso garantito basta salire sul palco e mandare affa... il mondo. Ma sento una certa responsabilità e cerco di avere meno fraintendimenti possibili».
A questo provvedono già i social.
«Ci vado solo raramente e parlo dei miei programmi».
In realtà tutti parlano di tutto e alzano sempre più i toni.
«Siamo costretti a inseguire la sensazione forte minuto dopo minuto, ma poi si accumulano troppe cose e tutto passa. Ad esempio abbiamo parlato tanto della pesca (si riferisce allo spot di una catena di supermercati - ndr) ma credo che tra due mesi non ce ne ricorderemo neanche più. Viviamo una sorta di doping».
L'alternativa è la comunità, il «noi» che è sempre
più raro nell'epoca dell'io solitario e digitale.«Forse anche per questo io ho sempre bisogno di suonare dal vivo. Lo faccio anche per pensare che ci sia un noi che sono riuscito a provocare io con le mie canzoni».
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