Un eroe comune (Marsilio, pagg. 300, euro 20) è il «romanzo familiare» che Igino Domanin ha scritto per raccontare suo zio e l'epoca in cui è stato ucciso. Suo zio è Emilio Alessandrini: «il giudice di piazza Fontana» per l'Italia; il fratello di sua madre, che incontra in spiaggia a Pescara in estate, per lo scrittore ragazzino. L'epoca è un passato recente, gli Anni di piombo: il 29 gennaio 1979, Emilio Alessandrini viene ammazzato a Milano da due membri di Prima linea.
Igino Domanin, perché Un eroe comune?
«L'eroe è considerato qualcuno fuori dal comune, e la vita di mio zio lo è stata senza dubbio, ma io lo descrivo come una persona colpita per il fatto di avere compiuto il suo dovere, qualcosa di ordinario. È un giovane di 36 anni, un uomo del suo tempo, con una vita privata normale».
E viene ucciso dai terroristi.
«Nella stessa rivendicazione si dice che viene colpito perché sta ridando credibilità allo Stato, perché lavora e fa funzionare una macchina inceppata per molti aspetti. E poi c'è un altro fattore. Credo che sia una figura non divisiva, un patriota repubblicano: tutta la sua vicenda, da quando diventa il giudice di Piazza Fontana e indaga l'eversione di destra alle inchieste sul terrorismo rosso fino a quelle sui reati finanziari e quella, che sfiora, sul Banco Ambrosiano, è quella di un uomo che segue la vocazione di difendere lo Stato nella sua forma democratica e repubblicana senza pregiudiziali e che incarna il ruolo del magistrato nel suo significato più profondo».
Il libro è in parte memoir, in parte storico: come è strutturato?
«Il romanzo si muove lungo tre tempi: quello lungo, collettivo, della Storia; quello personale, ovvero la vicenda raccontata, al presente indicativo, dal punto di vista di un ragazzino; quello contratto dell'uomo di oggi, che cerca di ricostruire ciò che ha vissuto emotivamente e di dare un senso di quello che può essere trasmesso di un mondo, nella misura in cui quel mondo non esiste più».
Lei dice, nel libro, di voler evitare il «vittimismo».
«Nei discorsi sugli Anni di piombo prevale, a lungo, la voce dei terroristi, i quali, nel migliore dei casi, tentano di giustificare sé stessi, utilizzando la Storia per affermare di essere stati in lotta contro uno Stato fascista e parlare di guerra civile; o, addirittura, arrivano al reducismo, alla nostalgia per l'impegno... Ma questa, che per anni ha occupato la scena editoriale e la memoria storica, è una contraffazione. Dall'altro lato, il punto di vista della vittima può essere schiacciato sul dolore e la dimensione personale. Io cerco di muovermi fra questi due scogli, anche perché, in quanto nipote, sono un testimone prossimo, ma non diretto».
Suo zio viene ucciso perché «riformista»: anche nella non logica del terrorismo, come è possibile questo paradosso?
«Si diffonde la tesi della strage di Stato su Piazza Fontana e, da lì, l'immagine di uno Stato stragista, che bisogna combattere in quanto tale e quindi, paradossalmente, bisogna combattere anche gli uomini che cercano di difenderlo; e che lo fanno nei limiti dello Stato di diritto, anche nel contrastare l'eversione, come mio zio. Proprio perché è un riformista, e chiede di riformare i codici eredità del fascismo, per Prima linea diventa un nemico da abbattere».
Ha anche delineato una strategia contro il terrorismo.
«Questo è legato alla sua personalità: era un uomo sorridente, gioviale, che amava chiacchierare, divertirsi alla sera, che con noi bambini scherzava e ci raccontava cose fuori dal comune... Prima di essere il magistrato, che indaga e giudica, è un uomo che cerca di capire, si immerge nei luoghi, frequenta anche persone protagoniste dell'estremismo: per esempio, c'è la cena famosa in cui incontra Toni Negri, dopo la quale riconosce la sua voce come quella di uno dei telefonisti del rapimento Moro, e che diventa materiale del Processo 7 aprile».
La sua infanzia crolla quando suo zio viene ucciso: è uno choc, eppure, nel giro di pochi anni, subentra un oblio diffuso su quegli anni. Come lo vive?
«Quello che guida la scrittura per me è l'emozione, il trauma che ha segnato la mia vita e quella della mia famiglia. Negli anni '80, all'improvviso è diventato tutto insensato: si parla di riflusso ma è una metafora sbagliata, secondo me. Coi miei coetanei era impossibile parlare degli anni '70 e di quella violenza e furore ideologici, che invece in me erano rimasti, perché con una tale tragedia familiare non avrei potuto evitarli».
C'è stata una rimozione?
«Siamo usciti da quel periodo grazie al pentitismo e alla dissociazione, strategie di cui non discuto l'efficacia, ma in seguito alle quali molti si sono sentiti riabilitati, o addirittura nobilitati, dal passato rivoluzionario; dall'altro lato, l'unico modo per ricordare gli anni '70 è stato mettere una lapide o una targa a mio zio, come ad altre vittime... Questa non è memoria, è una pietra tombale sul passato».
C'è una memoria diversa?
«Io provo a darne un ritratto vivo, che spero smuova i lettori: per chi non c'era e per chi c'era e, a lungo, ha preferito quella sorta di assoluzione generale che c'è stata. Ci sono grandi narrazioni ideologiche pubbliche, che pacificano e rassicurano e io cerco di metterle in discussione, senza polemica. Mio zio era un uomo solo, e questo mi ha molto emozionato».
Quanto solo?
«In
un mondo in cui l'ideologia era tutto, un uomo che agiva per la legge era incomprensibile. Ed era un riformista. In Italia, liberali e riformisti sono gli unici colpiti e avversati da tutte le culture politiche dominanti».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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