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La mobilità è utile. Ma non è un valore

Sulla soglia dell’età grave, Giulio Tremonti ha scoperto Parmenide, la scuola eleatica, il primato dell’essere sul divenire. Ha liquidato Eraclito, la scuola neoliberista, il dominio mondiale del mercato, il capitalismo apolide e la finanza nomade, che vogliono i loro dipendenti senza fissa dimora. È vero, la stabilità è un valore, la mobilità è una necessità. La stabilità è signorile, la mobilità è una servitù. Ma come, Tremonti, il liberista radicale, si spinge ora a rivalutare il posto fisso? È una conseguenza rigorosa e perfetta della sua mutazione culturale e politica; dopo aver scoperto che le società reggono su Dio patria e famiglia anche sotto diverso nome, è coerente poi dire che le società hanno bisogno di punti fermi e posti fissi per dar senso e luogo al movimento. L’unica incongruenza è di natura personale: ha scoperto il primato dell’immutabilità dopo aver mutato radicalmente posizione...

Sto facendo filosofia mentre sento che mi chiamate alla realtà della storia e dell’economia. Sappiamo quanti danni hanno fatto almeno negli ultimi decenni il mito e la realtà del posto fisso; è il dogma delle società inerti e ingessate, come quelle sovietiche, dove minima è la responsabilità e massima è la pigrizia, dove non conta il talento, il rischio e la duttilità ma la ripetizione, la sicurezza e la fissità. So distinguere tra la stabilità che è un valore e la staticità che è invece una iattura. La prima Repubblica, ad esempio, era statica senza essere stabile: fondata sullo statalismo e sul posto fisso, governata sempre dagli stessi partiti senza alternanza, non era però stabile, perché i governi cambiavano ogni nove mesi e gli equilibri benché anchilosati erano fragilissimi.

Non si decideva mai, si mediava di continuo. E i dipendenti pubblici erano inamovibili ma non avevano alcun senso della responsabilità loro affidata. Il posto fisso, si sa, è stato spesso l’ombrello dei nullafacenti, dei mediocri, dei parassiti. Ma Tremonti ha suggerito una verità: nei nostri anni abbiamo scambiato una necessità per un valore. Infatti lui non ha demolito la mobilità e nemmeno la flessibilità; se l’è presa con la mobilità assunta come valore in sé e non come mezzo, ruvido ma efficace, per migliorare le cose. Sappiamo che la variabilità del posto di lavoro, l’incertezza, la mutevolezza producono frustrazioni e infedeltà, solitudini e fratture sociali; ciò che migliora la produttività a volte peggiora la vivibilità e la società intera. So che è più consono nel nostro tempo l’elogio del nomade rispetto al sedentario, è più gradita la variabilità nell’era dei consumi, vincono la precarietà e la labilità rispetto alla durata e alla fedeltà; ma il nomadismo funziona finché c’è un orizzonte stabile che lo accoglie e lo garantisce.

Si può mutare ed esser liquidi dentro un quadro di solidità costanti. In una battuta, Tremonti ha liquidato Bauman e la sua società liquida. Se abbiamo davvero senso dello Stato, che già nel nome indica ciò che sta, e se crediamo davvero che una società abbia bisogno di certezze e punti fermi, come la famiglia, la città in cui si vive, la comunità in cui siamo inseriti, allora dobbiamo davvero dire che il posto fisso è un bene perché dà valore a quella continuità e a quel solido reticolo di relazioni e affetti. Il mutamento logora i rapporti, deprime le identità e i legami, sradica e sfascia le famiglie, le comunità. Non parlo pro domo mea; lo dice uno che non vive immobile col suo posto fisso nel suo luogo fisso, ma uno che è inquieto ed irrequieto, cambia continuamente luoghi e lavori, anche se non smette di scrivere.

Non è un ritorno sovietico o una nostalgia fascio-statalista di Tremonti, che mi pare davvero immune da queste tentazioni, e forse nemmeno una furbata per allargare il suo consenso a quell'Italia venuta dalla Dc, dalla destra, dallo Stato, dal Sud (a cui ha offerto anche una banca) e dal sindacato. Ma è la semplice considerazione che mutare è una necessità, a volte un desiderio, ma viene prima la persona, la famiglia, la città.

Produrre è un mezzo, benedetto e necessario; ma l’essere è un fine e tutelarlo è un valore. Quella di Tremonti, beninteso, è un’apologia di Parmenide e non del dipendente fannullone. Da Brunetta il bastone, da Tremonti la carota.

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