La rivoluzione elegante di sua maestà il dandy. Ovvero quando l'abito fa (ed è) il monaco

Il termine che tutti usiamo anche oggi per l'uomo di stile nasce nei primi anni dell'Ottocento. Ma descrive un'attitudine ben più antica: quella di cercare il bello e la leggerezza tutti i costi

La rivoluzione elegante di sua maestà il dandy. Ovvero quando l'abito fa (ed è) il monaco

L'eleganza al maschile è lui, il dandy, l'uomo in frac, non tanto nel senso di chi indossa il Frock coat o le sue evoluzioni, ma nel senso della canzone di Modugno, dell'eroe dalla bellezza malinconica e dissipata.

Si volesse essere filologici il dandy, ve lo direbbe qualsiasi dizionario della moda, nasce nell'Inghilterra della così detta Reggenza (1811-1921). Prendeva piede nei salotti una gioventù che metteva in atto un'ostentazione di eleganza dei modi e nel vestire. Uno stile caratterizzato da forme di individualismo esasperato, di ironico distacco dalla realtà e di rifiuto nei confronti della mediocrità, ma nemmeno la mediocrità borghese: una certa mediocrità nobiliare. Insomma una sorta di rivoluzione da salotto, che da alcuni è stata interpretata come puramente superficiale e riguardante unicamente la moda. Ad esempio Thomas Carlyle nella sua opera Sartor Resartus (1833-1834) definì il dandy come «un uomo il cui settore, ufficio e esistenza consiste nell'indossare abiti». Ma alla fine il decadentismo come complesso movimento culturale è venuto fuori da lì.

Ma se volessimo allargare la prospettiva il dandy, che è qualcosa di diverso dal dandismo, inteso come la massificazione del dandy, è una figura che ritorna a più riprese nella storia. Nell'antica Roma, ad esempio la prima rivolta a colpi di vestiti e di stile risale agli anni della Lex Oppia (215 a.C.). La città dai sette colli non è ancora caput mundi ma sta iniziando a diventare potente. È ancora in gran parte un grande paesone pieno di case di legno ma c'è chi come i membri della gens Cornelia (Scipione l'Africano sarà l'esponente più noto) ha iniziato ad aprirsi alla cultura greca. Cambiano gli abiti, gli uomini si fanno crescere la barba, le matrone osano abiti colorati. Un pezzo della vecchia nobiltà, come Catone il Censore, cerca di tirare il freno a mano. Non gli riuscirà. È l'inizio di una guerra a colpi di vestiti e di feste che durerà per tutta la Repubblica e l'impero. Il vertice del dandy antico è ovviamente quel Petronio (27-66 d.C.) arbiter elegantiae che ha caratterizzato la parte solare del regno neroniano. Così lo descriveva Tacito: «venne accolto tra i pochi intimi di Nerone, come arbitro di eleganza, e Nerone non riteneva niente divertente o voluttuoso, nello sfarzo della sua corte, se non avesse prima ottenuto l'approvazione di Petronio». Non finì bene, ci pensò un molto meno elegante Tigellino. Come spesso accade quando la prima arma di una presunta rivoluzione è il buon gusto.

E se senza dubbio la moda, molto più di quanto lo si racconti, l'ha fatta da padrona anche per tutto il Medioevo, è nel Rinascimento che si apre un'altra epoca dove il Dandismo diventa politica. Basti pensare al Cortigiano di Baldassarre Castiglione. L'eleganza a corte diventa sostanza. Un'estetica della sprezzatura che va oltre l'etica: «Li brutti... per lo più sono ancor mali e li belli boni». E in più doveva essere un'eleganza dotata di «sprezzatura». Definizione propria del Castiglione che si può riassumere così secondo il dizionario Treccani: «Atteggiamento ostentatamente disinvolto, di studiata noncuranza da parte di chi si sente molto sicuro di sé e dei propri mezzi». La parola Dandy è nata molto dopo ma si può dire che la sua base teorica per certi versi è questa. Ma se smettiamo di guardare al passato e ci portiamo al presente il dandy è morto?

Nemmeno per sogno si reincarna costantemente, anzi è diventato più proteiforme. In un mondo pieno di «tribù di sub-urbani», per usare le parole di Battiato (un dandy dell'elettropop?), il dandy cambia il look ma non il vizio. Non possiamo fare l'elenco dei dandy della modernità. Nell'arte forse non c'è stato nessuno più dandy di Andy Warhol con i suoi 15 minuti di celebrità. Un'arte la sua dove l'eleganza personale è un pezzo della creatività e viceversa. Un'arte dove la Factory è anche salotto dove arbitrare sulle mode e sugli stili, dove contaminare. Perché tra le vere caratteristiche del Dandy con la «D» maiuscola e non del dandismo, che del dandy è il cascame, è anche una certa capacità di vivere la vita come fosse un vestito comodo, elegante ma senza troppa imbastitura del sarto. L'omaggio che Warhol avrebbe apprezzato di più? Forse la nascita di un gruppo rock irriverente come i The Dandy Warhols, un nome che dice tutto. Sempre stando nel mondo delle note, il più elegante e irriverente della seconda metà del Novecento è stato David Bowie. Il cantante icona, il cantante personaggio, l'etereo uomo dello spazio, Ziggy Stardust, che si trasforma poi in Thin White Duke, lo «snello duca bianco». Con questo personaggio Bowie impersonava un aristocratico con un abbigliamento sobrio ed elegante, ipotetiche simpatie destrorse e una forte infatuazione per l'occultismo. Un'altra ribellione a colpi di estetica.

Insomma il dandy torna come torna il desiderio di bellezza e di eleganza, anche se il dandy non vince mai. Forse per quello lo si ama. Lo scrittore più dandy di tutti forse è stato Oscar Wilde e tutti sanno come è finita.

Secondo la leggenda, la sua ultima frase prima di morire fu: «O se ne va questa carta da parati o me ne vado io!». Se ne andò lui perché le rivoluzioni fatte di eleganza richiedono spesso molto tempo. Ma restano più di quelle fatte a colpi di ghigliottina.

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