Una sprezzatura che da 500 anni veste l'Italia (e non solo…)

La parola, che definisce l'eleganza non ostentata, ho avuto una nuova vita sui social network di tutto il mondo

Una sprezzatura che da 500 anni veste l'Italia (e non solo…)
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C'è una parola, molto anziana, che persasi e ritrovatasi in non si sa quali tornanti della storia, è infine riemersa attraverso le pagine e i profili social più seguiti e moderni. Ma soprattutto alla moda. Una parola nata per essere fraintesa e il cui successo attuale è, almeno in parte, frutto di fraintendimento. Una parola amata dai remuneratissimi influencer dello stile, ma che probabilmente - perché tutto è una pericolante ipotesi a proposito di essa - nasce da un aristocratico spregio nei confronti del denaro e del valore economico che viene appioppato alle cose: sprezzatura. A chiunque sia capitato - per gioco, per lavoro o per sbaglio - di infilare il naso nel mondo della moda maschile, questa parola non può non essere giunta al suo orecchio. Con una gamma di significati spesso differenti e talvolta contrastanti tra loro, perché la parola si presta volentieri al camuffamento, al travestimento e al travisamento, ma anche perché è in continua evoluzione.

Diciamo, molto vagamente, che il significato rotola giù in quel declivio dove la moda si confonde con gli stati d'animo e le attitudini comportamentali. Perché, nel 2024, sprezzatura è un tag sempre valido per ogni post a corredo di una giacca sartoriale o di un tessuto di tweed, una parola internazionale profondamente legata a una nazione - la nostra - rimasta però senza patria, se non quella dei reel di Instagram e delle stories dedicate alle ultime tendenze.

Ma facciamo un passo indietro. Cosa significa, realmente, sprezzatura? Ecco la prima voce del dizionario Treccani: «L'essere, il mostrarsi sprezzante». Fin qui è tutto piuttosto intuitivo, ma la definizione non calza a pennello con quella attualmente in circolazione. Facciamo un altro passo indietro, seconda voce del vocabolario: «Atteggiamento ostentatamente disinvolto, di studiata noncuranza da parte di chi si sente molto sicuro di sé e dei propri mezzi». Per comprendere meglio una parola così social e trend topic, dunque, ci conviene fare un salto nel passato, precisamente nel 1528. L'umanista Baldassarre Castiglione nel suo Cortegiano (1528, appunto) battezza così il termine: «Trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcun altra: e cioè fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi Da questo credo io che derivi assai la grazia: perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch'ella si sia. Però si po dire quella essere vera arte, che non pare essere arte; né più in altro si ha da poner studio che nella nasconderla: perché, se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l'omo poco estimato».

Da Baldassarre Castiglione a Lino Ieluzzi, commerciante di abbigliamento e star social del mondo della moda maschile, il passo è brevissimo. Cinquecento anni che si accorciano nel velocissimo scroll dello schermo di uno smartphone.

La sprezzatura, quindi, è l'eleganza naturale e non ostentata, il contrario dell'affettazione e, per inciso, il contrario di molto di ciò che si vede sui social media e che troppo spesso viene derubricato proprio sotto la voce sprezzatura. Sprezzatura, talvolta, da contrario diventa sinonimo di overdressing: cioè ostentazione di eleganza e di ricchezza, eccesso di ornamenti e di studiatissima ricercatezza.

Ma, al netto delle critiche, il termine negli ultimi dieci anni ha raccolto tanto successo quanto ha accresciuto i suoi molteplici significati, anche al di là della lingua italiana.

«Questa bella parola ha una sorte davvero straordinaria: in Italia è quasi del tutto negletta, mentre all'estero ruggisce, fra marchi d'imprese e blog e riviste di moda -

percepita come portatrice di un concetto intraducibile, e vera cifra dell'italianità», scrive il sito «Una parola al giorno». Insomma un successo tricolore che però nessuno rivendica, con grande sprezzatura, in un certo senso.

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