Ironia e paradosso. Sono armi a doppio taglio, se a brandirle è un imputato alla sbarra, che pronuncia la sua difesa davanti a chi è lì per giudicarlo su crimini capitali: empietà religiosa e corruzione dei giovani, che nellAtene dellepoca comportavano la morte per cicuta. È il caso di Socrate.
Lo sanno bene i maturandi del Classico, ieri alle prese nella seconda prova, greco, con una pagina centrale dellApologia di Platone. Il paradosso scocca già nel titolo della versione: «Socrate e la politica». Se per politica si intende, etimologicamente, la «scienza della polis», la città come fulcro dell'esperienza umana e civile, la cui sostanziale fibra è la giustizia, nessun binomio è più solido e reale: Socrate ne è laccanito cultore, il missionario che ha ricevuto linvestitura dal suo dio, Apollo. Se invece si legge quella parola come impasto di poteri, corruzioni, intrallazzi, Socrate è il modello splendente delle mani pulite, lestraneo che rifiuta ogni connivenza. Vi ha avuto a che fare una volta sola. Bisogna avere qualche nozione di storia e del politichese del tempo, per capirlo. «Capitò» (è nel testo, ètuchen) che Socrate fosse nominato membro della Bulè, il Consiglio dei Cinquecento, a cui si accedeva per rotazione, con un sorteggio. Naturalmente agì da bastian contrario. Si oppose a una delibera della maggioranza che metteva a morte i generali, vittoriosi nello scontro navale delle Arginuse, ma ritenuti colpevoli di non avere raccolto i naufraghi. Era scoppiata una tempesta, e i capi avevano scelto di non porre a rischio la vita dei molti, per salvare i pochi. Comando impietoso, ma razionale e necessario, secondo Socrate, che non patteggia con la massa popolare, accecata dalla rivalsa democratica.
La sua ironia frizza tra le righe come un sottotesto urticante. Ostentatamente, si rivolge a chi voterà nel processo per la sua vita o la sua morte, con il generico àndres Athenàioi, «Signori ateniesi». Riserverà lalto appellativo, dikastài, «giudici», solo a quei pochi che, nel primo verdetto, lo avranno prosciolto. Non è certo lo stile per arruffianarsi una giuria, già con il dente avvelenato contro di lui.
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