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Le modelle che pennellano i tormenti di un genio

Mika Biermann inventa Saskia, Agostina e Gabrielle per raccontare il pittore bambino, adulto e morente

Le modelle che pennellano i tormenti di un genio

Ci sono vite che restano pozzi senza fondo di ispirazione, nonostante su di esse siano stati scritti centinaia di saggi e romanzi e poesie e sceneggiature. Quella di Vincent Van Gogh è una di queste e lo rimarrà per sempre. Se credete di aver letto tutto su di lui, se sapete a memoria le lettere a Theo e le regalate agli amici o se magari pensate che il film di Julian Schnabel di qualche anno fa abbia gettato la lucida sfocatura definitiva sulla sua follia, ma anche e soprattutto se non ne sapete nulla o quasi, Tre donne nella vita di Vincent Van Gogh, uscito pochi giorni fa per L'orma (traduzione di Chiara Licata, pagg. 96, euro 13), è l'ennesimo, eppure affascinante, viaggio nel mistero del pittore moderno più famoso del mondo. Sarà perché prima di riempire pagine di romanzi, l'autore, lo scrittore francese di origine tedesca Mika Biermann, si dedicava alla pittura, ma, dopo aver letto questo libro brevissimo, si rimane ancora abbagliati per qualche tempo dalle immagini create dal racconto, come se minuscoli, fugaci flash ci avessero infine illuminato parti della vita d'artista finora insondate.

Primo titolo di una trilogia che L'orma porta in Italia e di cui fanno parte Tre notti nella vita di Berthe Morisot e Tre giorni nella vita di Paul Cézanne, il romanzo su Van Gogh ci fa prima di tutto conoscere la formula Biermann: in un periodo in cui ai lettori interessano le biografie e l'autofiction più di ogni altra cosa, Biermann salta e danza con coraggio sul confine tra biografia fantastica e ricostruzione dell'attimo, come in una meditazione o forse una seduta spiritica in cui Van Gogh, colori e cavalletto, tormento e sguardo, ci appare accanto, evocato dal romanzo-ouija. Il meccanismo è semplice ma efficace: i momenti decisivi della vita di un uomo sono spesso segnati dalla presenza femminile, odori, forme, offerta e rifiuto, apparizione e tortura dei sensi. È quel che Biermann fa accadere per tre volte al nostro Van Gogh, con pochi tratti di scrittura per immagini.

La prima versione di donna è Saskia, nome da modella eppure sfrontata pastora d'oche macchiata di fango, Saskia dai piedi grandi e dalle unghie sporche, che per il gran caldo toglie prima gli stivali e poi tutto il resto - al diavolo padre, madre e fratello maggiore - in riva a un fiume la cui frescura la ingolosisce più del sidro. Vincent bambino cammina nel bosco, lo sconcio Shakespeare e i valorosi Tre moschettieri nella testa, con una spada immaginaria tra le mani, proprio mentre Saskia si contempla quella peluria bionda tra le gambe, le sue dodici oche a passeggiarle intorno: quel che accadrà tra i due - vestirsi, svestirsi, rifarsi la treccia - entra ed esce dal quadro e dal tempo e quell'estate che dura tre settimane potrebbe essere qui accanto, la nostra.

La seconda visione, Agostina, ci porta a Parigi, nel 1887. Van Gogh non è più quel bambino solitario, ma un pittore da un quadro ogni due giorni e mezzo, per lui «come bere un bicchier d'acqua» o come pisciare contro un lampione, diciassette anni dopo esser stato licenziato da apprendista alla galleria Goupil&Cie all'Aia, dove era costretto a piazzare «croste invendibili». In un conto alla rovescia tipico della formula Biermann, gli restano tre anni da vivere e cinquecentodiciannove quadri da dipingere. Agostina è a Parigi da quando aveva diciannove anni: arrivata nella città «centro di tutte le speculazioni internazionali» per fare la modella, ha posato per il libertino Manet che le ha fatto «un culo da giumenta» e per Corot che «parlava in continuazione dei suoi viaggi e del Salon che si era rifiutato di conferirgli una medaglia». Pensa, Agostina: «Gli uomini, tutti puttane», e intanto invecchia. E dopo i quarant'anni nulla è più come prima: perde qualche dente, arrivano i fili bianchi tra i capelli e al posto delle sedute di posa sempre troppo lunghe arriva questo Van Gogh con quadri di fiori che non vendono e che non l'ascolta mai: «I pittori, tutti sordi come campane». I due sono disincantanti amanti: lei all'inizio lo trovava erotico, e ora gli sente l'alito pesante dell'alcolista. Eppure continua a servirgli l'assenzio, concentrato e senza zucchero, mentre gli consiglia di curarsi. Lui le promette che la porterà a Roma, a posare un fiore sulla tomba di Caravaggio, lei lo chiama «Van» come Ludwig Van Beethoven perché un po' gli assomiglia, crede, e intanto lo pensa come un satiro, che sa dipingerla con «una faccia da baccante addormentata e un corpo da nana irsuta». Se fosse sopravvissuto, se avesse avuto una moglie, forse sarebbe stata Agostina, pensa il lettore: il gioco dei se è la prova della riuscita della formula Biermann.

L'ultima visione è riservata a Gabrielle, anche lei nome da modella, anche lei ancora una bambina. Per via della locanda Ravoux, dove Van Gogh ha trascorso gli ultimi settanta giorni della sua vita, dove sistemare la cassetta dei colori è un po' «come mettere le cartucce in un revolver». Gabrielle, orfana di padre e di madre violenta, semplice eppure caparbia come la giumenta percheron che cavalca - al galoppo per la strada principale di Auvers-sur-Oise, a cavalcioni, senza sella, in maniche di camicia, praticamente nuda - vede il pittore, il saltimbanco, l'assassino, quello che a sua volta saprà davvero vederla donna e dipingerla «donna e cavalla»: «Si dice sia straniero. Un pittore. Ci mancava pure questa. Un villaggio è una cosa facile. A destra il macellaio, a sinistra il panettiere, ed è tutto».

E invece un pittore può cambiare una bambina, una donna, una cavalla, un villaggio, il mondo intero, se quel pittore è Van Gogh: «Un tipo coi capelli rossi che suda sangue e acqua nel sottobosco; un artista congelato e violaceo disteso sulla neve di altri tempi; un guardone che spia la guardiana delle oche mentre fa il bagno nuda nel ruscello».

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