In Molise il vitalizio d’oro va anche a papà

In questa nostra valle di lacrime, esiste ancora una terra fertile e rigogliosa, dove il destino può anche sorridere. Basta imboccare la strada giusta, che porta verso l’alto. Il problema è tutto qui: il privilegio è riservato a pochi eletti, a suffragio universale. Il piccolo Eden è il Molise: 4.437 chilometri quadrati tra l’Adriatico più pulito e i verdissimi Appennini, 319.780 abitanti, densità 72 per chilometro, una miniatura di Regione seconda per esiguità soltanto alla Valle d’Aosta.
Qui, dove tutto è piccolo, i politici pensano in grande. I 30 consiglieri regionali non temono il futuro. L’hanno predisposto con molta cura. Grazie a una legge del 1995, non si fanno cogliere impreparati. Dopo essersi massacrati nel duro lavoro amministrativo, anche questi rappresentanti del popolo godono del vitalizio che sta facendo parlare tutta Italia in queste ore febbrili. Con una legislatura - 60 versamenti mensili, 22 per cento sul compenso lordo (7.800 euro) - maturano il diritto a incassare una buona cifra al compimento del sessantesimo anno. Cose così, come nel resto dell’arcipelago politico italiano. Ma infatti non sta nei privilegi comuni il particolare fascino di questo Eldorado della terza età. La vera gloria della citata legge sta tutta concentrata in un’idea rivoluzionaria: trasformare il vitalizio in un patrimonio di famiglia, perché niente si perda con il disgraziato evento della morte.
In un certo senso, sono prove tecniche di eternità: per quanto le spoglie umane possano trapassare, i benefici che si portano appresso non trapassano mai. Passano. In primo luogo, ovviamente al consorte. In assenza del consorte, passano ai figli. E se proprio non ci sono figli, passano al padre del compianto consigliere. E se proprio non è disponibile un padre, passano alla madre. Il Settimanale del Molise, con accurate simulazioni, ha calcolato che un vitalizio possa andare avanti così anche per cinquant’anni.
È persino evidente che in un’altra vita, in un’altra Italia, in un’altra congiuntura, tutto questo non stupirebbe nessuno. Per tanti e tanti anni noi italiani abbiamo guardato alle sfacciate prerogative della politica come si guarda al sole che sorge, accettandole e subendole come dati di fatto naturali, come leggi immutabili, tutti quanti catatonici davanti all’ineluttabile. Improvvisamente, ai tempi dello spread e del default, ci stiamo accorgendo che questo destino fulgido e dorato non sta scritto da nessuna parte, che nessun medico l’ha ordinato. In origine, così per fare un poco di sana retorica, la politica era servizio. Sono loro, che hanno cominciato a guardarla come una formidabile e comodissima alternativa allo studio e al lavoro comune, sono gli artisti della casta ad aver trasformato il servizio pubblico in servizio privato. Per decenni ci hanno raccontato - e purtroppo ci hanno convinto - che la politica ha i suoi costi, che la politica stressa, che la politica comporta enormi responsabilità. Da qui, la crescita esponenziale e insolente delle retribuzioni, dei benefici, dei privilegi. Dannazione, se la grande crisi non fosse improvvisamente intervenuta, sarebbero riusciti a inserire la politica tra i mestieri usuranti.
Ci resta almeno una certezza: come possiamo vedere in questi giorni, mentre tutti vanno a rovistare negli armadi della politica per tirare fuori cataste di scheletri, non c’è Roma e non c’è periferia. Uno Stato veramente ed equamente federale distruisce privilegi e fortune al Nord come al Sud, al potere centrale come all’ultima amministrazione di estrema provincia.

Persino il piccolo e defilato Molise, nel settore, ha qualcosa da insegnare. Tanti problemi da risolvere, molte arretratezze da colmare, i migliori giovani da trattenere: ma sul piano previdenziale, qui i politici non sono secondi a nessuno. Paradosso italiano. Il sonno della Regione.

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