Il mondo ai piedi di Gengis Khan

Ottocento anni fa il «Signore universale» creò un impero che in breve tempo si estese dall’Ungheria fino alla Cina

Ottocento anni fa tutti i capi dei mongoli si riunirono in assemblea. Erano i signori di un popolo orgoglioso ma povero, che da secoli vagava per le steppe immense dell’Asia, bevendo latte cagliato e accampandosi sotto le stelle. Cavalieri formidabili, arcieri infallibili, i mongoli non avevano mai avuto un leader unico. Ma ora c’era Temucin: aveva quasi quarant’anni e stava riuscendo nel miracolo di trasformare l’orda tribale dei mongoli in un esercito potente e disciplinato. A solo vent’anni aveva riconquistato il comando del suo clan, dopo la morte prematura del padre, guidando diecimila cavalieri contro chi aveva osato esiliarlo: gli usurpatori furono bolliti vivi in calderoni di rame. Poi si era messo al galoppo per l’Asia, aveva sconfinato nelle terre dei Kereit e dei Naimun: invano gli sciamani avevano suscitato, come narrano i cronisti dell’epoca, una burrasca magica per fermare gli invasori. Temucin era più rapido della tempesta e la sua fama di condottiero era ormai grande. Così, dovendo scegliersi un capo supremo, i mongoli incoronarono Temucin. E lo proclamarono «Signore universale». Ovvero, nella loro lingua, Gengis Khan.
Anno 1206: mentre in Occidente i cristiani si scannavano tra di loro, e i crociati si dividevano il bottino del sacco di Costantinopoli, in Oriente nasceva un nuovo impero, l’impero mongolo. Non sarebbe durato a lungo, poco più di un secolo e mezzo: nel 1368 l’unità dei mongoli si sarebbe sfaldata per sempre. Ma per quel secolo e mezzo i mongoli non avrebbero avuto rivali: nessuno fu mai, come loro, signore di un territorio tanto grande, che correva dall’Ungheria alla Cina. E il merito va soprattutto a quel nomade analfabeta, a Temucin. Che appena nominato Khan sbrigliò la sua cavalleria in lungo e in largo: con la sua orda attaccò la Cina, arrivando fino a Pechino; incrociò le armi con i principi di Russia e gli scià di Persia; ridusse in cenere le grandi città carovaniere, dove da secoli passava il commercio della seta e delle spezie. A Bukhara, dotta e ricca roccaforte dell’Islam, alloggiò i suoi cavalli nelle biblioteche, tra i volumi del Corano, e li fece abbeverare nelle fontane delle ville principesche. Devastò Samarcanda, la città delle delizie, un paradiso in terra, con i suoi orti, i suoi giardini, i suoi laghetti artificiali. Di Merv e di Herat lasciò solo le ceneri e poche mura diroccate. E siccome si era la sparsa la voce che qualcuno sopravviveva fingendosi morto, acquattato fra l’ammasso dei cadaveri, l’ordine fu di staccare a tutti la testa dal tronco.
Di tanto in tanto, Gengis ammainava lo stendardo a nove code che garriva sui suoi eserciti e tornava a Karakhorum, la sua capitale, poco più che un ammasso di tende, un caotico caravanserraglio, da dove poi ripartiva di nuovo, con tutta la sua orda, una città viaggiante, affollatissima di cortigiane (la leggenda vuole che Gengis fosse infaticabile non solo come guerriero ma anche come amante). Il Khan morì il 18 agosto 1227, a sessant’anni, mentre reprimeva una rivolta in Cina. Spirando, raccomandò ai suoi di massacrare tutti i rivoltosi e ridurre la loro nazione a terra bruciata. Divenne subito una leggenda. Ancora oggi c’è chi è convinto che, da qualche parte nella steppa, sia nascosta una città favolosa, la città fantasma di Gengis Khan.
I successori di Temucin continuarono nella sua politica di conquiste. I cavalieri mongoli entrarono a Cracovia, sconfinarono in Ungheria e anche in Friuli. Il filosofo Ruggero Bacone ravvisò in loro la stirpe biblica di Gog e Magog, i soldati dell’Anticristo, i Cavalieri dell’Apocalisse. A Oriente, le orde mongole tentarono addirittura la conquista del Giappone e di Giava. Ma i nuovi Khan si preoccuparono soprattutto di consolidare l’impero. Karakhorum incominciò sempre più ad assomigliare a una città: una strana città, dove le jurte, le tradizionali tende dei nomadi, convivevano con la casa elegante di Madame Pasquette, una francese di Metz catturata durante una scorreria in Ungheria. E un altro cittadino di Karakhorum, l’orefice parigino Guillaume Boucher, costruendo per il Khan una fontana tutta d’argento, sormontata da un angelo che suonava la tromba, dovette prevedere, accanto a uno zampillo per il vino, anche uno per il latte cagliato. Poi la capitale fu spostata a Pechino, e i figli dei nomadi sedettero sul trono imperiale cinese finché non furono spodestati, nel 1368, dalla dinastia Ming.
Quando Marco Polo andò in Cina, sul trono sedeva Kubilai Khan e l’impero mongolo era all’apice della sua potenza. I viaggiatori occidentali erano stupiti dalla stabilità e dall’ordine che regnavano nell’Asia: un proverbio diceva che «una vergine sola, sopra un mulo carico d’oro, può traversare i domini del Khan senza alcun pericolo». Ma ciò che caratterizzava l’impero mongolo era anche la grande tolleranza religiosa. Marco Polo ricorderà lo stesso Gengis, terrore dell’Asia, come uomo «prudente e saggio». Un sovrano che concedeva libertà di culto a tutti i suoi sudditi e lasciava che sacerdoti di ogni religione seguissero i suoi eserciti in marcia: i lama in abiti gialli e rossi, i mullah musulmani, i preti cristiani.
Un re addirittura influenzato dalla fede cristiana. E non deve sembrare assurdo: molti mongoli erano cristiani di confessione nestoriana, compresa la madre di Kubilai Khan. Il patriarcato nestoriano aveva la sua sede a Bagdad, da dove i mongoli avevano cacciato i califfi abassidi nel 1258. Nel 1281 fu un turco uiguro, nato vicino a Pechino, a divenire patriarca con il nome di Yaballah III. E fu probabilmente il nestorianesimo a dettare a Gengis, uomo delle steppe, cresciuto nella fede negli spiriti della natura, la prima norma del suo codice di legge, detto Iassa: «Si ordina a tutti di credere in un unico Dio, creatore del cielo e della terra». Che poi il codice proseguisse sancendo il divieto assoluto di bagnarsi in un fiume quando tuona, era invece un tratto che apparteneva alla cultura della steppa: i mongoli non temevano nulla ma, come i bambini, avevano il sacro terrore del tuono. Come scriveva Fosco Maraini, «nell’immenso spazio conquistato dai suoi arcieri a cavallo, Gengis Khan fece sorgere quasi dal nulla uno stato in cui nomadi e agricoltori, pastori e cittadini, cinesi, mongoli, turchi, persiani, russi, musulmani, buddhisti, cristiani, sciamani delle steppe e filosofi delle accademie cittadine poterono vivere in pace e in armonia tra loro per oltre un secolo».


Peccato che Gengis, per secoli, sia stato visto solo come un barbaro: oggi che a Bagdad non si riesce nemmeno a far andare d’accordo i musulmani tra loro, e i cristiani nestoriani se ne devono stare barricati nelle chiese, la sua saggezza imperiale avrebbe forse qualcosa da insegnarci.

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