Dalla Cina al Kosovo, l'arma infallibile dei profughi

L'uso politico delle migrazioni ha scandito il XX secolo. L'efficacia? Superiore alle guerre

Dalla Cina al Kosovo, l'arma infallibile dei profughi

Le migrazioni sono da sempre una delle componenti fondamentali della geopolitica. Lo erano nel XX secolo e lo sono, ancora di più, nel XXI secolo. Non sono però uno degli argomenti più graditi ai politologi e ai governi, creano facilmente imbarazzo, basta vedere la difficoltà a gestire quella che in questi giorni si sta rivelando come una vera e propria aggressione a mezzo migranti della Bielorussia verso la Polonia. Sarà un'aggressione riuscita?

Per capirlo ci si può rivolgere ad un saggio uscito nel 2017 a firma di Kelly M. Greenhill, scienziata politica che insegna alla Tufts University: si intitola Armi di migrazione di massa (Leg, pagg. 492, euro 20) e allora quasi ignorato in Italia anche se prefato da Sergio Romano). Il titolo è di per sé molto chiaro ma il sottotitolo contribuiva a levare ogni dubbio: Deportazione, coercizione e politica estera. L'accademica mette in fila esempi dell'utilizzo delle migrazioni come arma che fanno tremare i polsi. Non molti ricordano la tecnica che il premier cinese Deng Xiaoping (1904-1997) utilizzò con il presidente degli Usa Jimmy Carter, nel 1979, durante uno degli storici incontri che portarono all'apertura della Cina. Carter disse che gli Usa non avrebbero potuto liberamente commerciare con la Cina sino a che Pechino non avesse mostrato maggiore rispetto dei diritti umani. Deng chiese se tra questi diritti ci fosse anche quello di emigrare.

Carter assentì. Deng allora: «Va bene, esattamente, quanti cinesi le piacerebbe avere, signor Presidente? Un milione? 10 milioni? 30 milioni? Non c'è problema». La questione dei diritti umani in Cina uscì rapidamente di scena. E a decenni di distanza quale sia la situazione con la Cina è sempre più evidente. Ma se quella fu una semplice minaccia, in altri casi, sono state deliberatamente aperte frontiere o addirittura spinte alla fuga intere popolazioni. Quando la Nato intervenne in Kosovo, il 24 marzo 1999, il presidente serbo Slobodan Milosevic mise in movimento le sue truppe per spingere fuori dal Kosovo quasi 800mila persone. Lo scopo dei serbi era solo in parte una pulizia etnica. In un conflitto in cui, militarmente, era ovvio che non ci fosse possibilità di battere la Nato, riversare profughi sull'Europa sembrò al leader serbo una minaccia più che adeguata a destabilizzare i Paesi vicini. Una volta aperte le ostilità, la sua mossa risultò inutile, per quanto devastante dal punto di vista umanitario.

Ecco parliamo di efficacia, perché è quì che la Greenhill mette nero su bianco i numeri che nessuno vuole ammettere. contro le democrazie - che giustamente hanno a cuore i diritti umani e in cui i cittadini faticano a tollerare vedere degli innocenti morire sul confine - i Paesi mandanti possono facilmente: «strutturare l'emigrazione in modo che con ogni probabilità quelli riceventi reagiscano con azioni amministrative contraddittorie». A suon di tabelle arriva a dimostrare che il successo di un'aggressione a colpi di profughi è del 57%. Ovvero il 57% delle volte chi è stato investito da un flusso migratorio ha capitolato verso chi glielo ha scatenato contro. Un risultato paragonabile a quello della deterrenza militare degli Usa e decisamente migliore di ogni deterrenza attraverso sanzioni economiche (33% di successo) o iniziative diplomatiche (19%).

Abbastanza per capire che -si tratti di siriani in fuga dalla Turchia, di barconi dalla Libia o di profughi espulsi dalla Bielorussia poco cambia- che quella portata avanti verso l'Europa è sempre una sorta di guerra (fa vittime) a bassa intensità. E che al momento la Une uno strumento di difesa vero non lo ha messo a punto.

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