Il tasso di disoccupazione al 5,9%, un livello che non si vedeva dal 2008. Il pil cresce oltre le attese (3,5% contro il 3,1% previsto dagli analisti nel terzo trimestre dell'anno). Sono numeri che, in Europa, farebbero portare in trionfo il capo del governo. Negli Stati Uniti no. Tra pochi giorni Obama potrebbe diventare un'anatra zoppa, perdendo il controllo del Senato (dopo quello della Camera). Con le elezioni di midterm di martedi 4 Novembre, infatti, quasi tutti i sondaggi prevedono la sconfitta dei democratici. Se ciò avverrà la Casa Bianca avrà davanti a sé due anni molto difficili, con il Congresso contro, pronto a bocciare tutte (o quasi) le iniziative di Obama. Una “coabitazione” tutt'altro che semplice per un presidente più propenso allo scontro che al compromesso con i repubblicani.
A rendere più evidente la crisi di Obama c'è un dato. Tra i candidati democratici al Senato solo uno (Gary Peters) si è fatto vedere in giro con il presidente. Tutti gli altri hanno detto “no grazie”, preferendo fare campagna elettorale da soli, pur di evitare “l'abbraccio della morte”. Una candidata del Kentucky addirittura ha chiuso uno spot con questa frase: “Non sono Barack Obama”. Per cercare di vincere si ritiene più saggio tenersi a debita distanza dall'uomo che, in questa fase, attira su di sé il malcontento degli americani. Solo il 42% degli americani lo apprezza, il 51% lo boccia (Abc/Washington Post). Il 60%, invece, è convinto che il governo stia sbagliando tutto, e che il Paese sia incamminato verso una brutta china. Prevale, dunque, la sfiducia.
I temi chiave di queste elezioni, secondo una rilevazione Ap-Gfk, sono tre: accanto all'economia (78%), sempre presente in tutte le tornate elettorali, questa volta a preoccupare gli americani c'è la sanità (78%) e il virus Ebola (74%). La minaccia dell'Isis è sentita da due americani su tre (65%). Interessano meno temi come i matrimoni gay (32%) e l'aborto (43%), che sotto l'era di George W. Bush molto più importanti e per questo furono cavalcati ad arte dal suo stratega Karl Rove. Ovviamente, oltre che guardando ai temi di carattere nazionale (una sorta di referendum pro o contro Obama) si vota anche sui singoli candidati, che dovranno andare a rappresentare il proprio Stato a Washington. E si vota per eleggere 36 governatori (su cinquanta), con temi molto importanti all'ordine del giorno (lavoro, sviluppo economico, istruzione e sanità in primis).
Appare scontata la vittoria dei repubblicani alla Camera (dove già hanno la maggioranza). La sfida delle sfide è quella per il Senato (ogni Stato elegge due senatori), che verrà rinnovato per un terzo Vediamo un po' di numeri. I repubblicani hanno bisogno di sei seggi per controllarlo e, di fatto, bloccare i prossimi due anni di Obama (costringendolo a continui compromessi). Tra gli Stati considerati in bilico tre sono in mano ai democratici: Iowa, New Hampshire e North Carolina. Due, invece, sono a destra: Georgia e Kansas. Il Gop, secondo gli ultimi sondaggi, è in vantaggio in cinque Stati democratici: Arkansas, Louisiana, Montana, South Dakota e West Virginia. L'impressione prevalente è che stia soffiando forte l'aria del cambiamento. Ma Nate Cohn, sondaggista del New York Times, mette le mani avanti sottolineando che “i sondaggi negli ultimi anni (midterm 2010 e presidenziali 2012, ndr) hanno sottostimato i risultati democratici e ci sono ragioni per credere che possa succedere di nuovo”. Insomma, non si possono escludere sorprese.
Un altro dato merita la nostra attenzione: su trentotto elezioni di midterm sono solo tre i casi in cui il partito del presidente si è rafforzato. Negli Stati Uniti il ricambio politico è molto forte e le elezioni di metà mandato servono, oltre che a mandare segnali di malcontento (o apprezzamento), anche a imprimere una forte accelerazione alla politica. Il ricambio, come si vede, fa parte del sistema.
Un presidente al massimo dura in carica otto anni (su due mandati), ma è sottoposto, per ben due volte, al “tagliando” delle elezioni di medio termine. Un modo come un altro per fargli sentire il fiato sul collo. Perché i sondaggi di popolarità si possono fare ogni giorno, ma ciò che conta davvero, in democrazia, è il responso delle urne.
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