Recentemente la censura di Facebook si è abbattuta su quell'area politica che fa capo principalmente a Casapound e Forza Nuova: centinaia di profili personali e decine di pagine ufficiali dei due movimenti politici e delle associazioni a loro collegate sono stati cancellati senza possibilità di recupero. Addirittura se si cerca di pubblicare una fotografia ritraente il segretario di Casapound, Simone Di Stefano, l'algoritmo del social di Mark Zuckerberg la riconosce come contraria alla policy del sito e non ne permette la messa online. Inoltre, in almeno un caso, quando una testata giornalistica locale ha cercato di pubblicare un articolo che parlava del movimento politico fondato da Gianluca Iannone, ha ricevuto un avviso dagli amministratori di Facebook che suonava come un ultimatum: il post non è stato caricato e se avessero provato nuovamente a farlo avrebbero chiuso la pagina. Migliaia di follower e contatti persi per colpa della censura politica.
Perfino il Garante della privacy, Antonello Soro, è intervenuto sulla vicenda affermando che “ogni limitazione nell’uso dei social network comprime inevitabilmente la libertà di espressione, con riflessi ulteriori quando oggetto di ‘censura’ siano idee politiche; incidendo dunque su libertà che costituiscono la pietra angolare della democrazia”. Questo però non è bastato per far tornare sui suoi passi il social più famoso (e usato) del mondo e non ha ancora smosso il legislatore per cercare di colmare quella che è un'evidenta lacuna del diritto: la possibilità di una società straniera di operare arbitrariamente in Italia con lo strumento censorio, quindi di fatto limitando la libertà di espressione.
I "proscritti" da Facebook hanno però, forse, una freccia al loro arco. L'anno scorso il Tribunale di Pordenone, per un caso simile, ha stabilito che il social non può disattivare profili in base a violazioni solo presunte ed evidenziate senza contraddittorio. Facebook dovrà pertanto pagare una penale per ogni giorno di ritardo nella riattivazione dell'account immotivatamente disattivato.
La sentenza, pronunciata a seguito della causa civile 2139/2018, ha accolto il ricorso ex art. 700 c.p.c. promosso da un utente che si era visto disattivare e cancellare il profilo personale e, di conseguenza, era stato privato della possibilità di gestire la sua pagina presente sul social.
Il caso, sebbene diverso per quanto riguarda la causa scatenante - l'utente aveva pubblicato un video dal profilo pubblico Instagram del torneo di Wimbledon ed era stato accusato di uso illegittimo dello stesso - ha però un fondamentale punto in comune con quanto accaduto recentemente agli utenti "sovranisti" e "identitari" che si sono visti cancellare il profilo: il Tribunale ha ritenuto infatti che Facebook abbia sanzionato l'utente "senza consentire allo stesso di giustificarsi, adottando un rimedio del tutto sproporzionato rispetto agli addebiti mossi, finendo così non solo per violare le norme contrattuali, ma anche violando i diritti costituzionalmente garantiti al ricorrente".
La piattaforma social, anche nel caso dei profili degli utenti riconducibili a Casapound o Forza Nuova, non ha dato modo a nessun utente di avere un contraddittorio, non ha fornito spiegazioni ad personam citando contenuti di vario tipo che avrebbero violato la policy del sito, e soprattutto non ha concesso la "possibilità di redenzione". Gli amministratori hanno affidato alla stampa la loro motivazione parlando generalmente ed in modo del tutto aleatorio di aver agito in tal senso per evitare la "diffusione dell'odio", ma stante la sentenza del Tribunale, non basta.
Il giudice ha anche ritenuto di dover applicare l'art. 614-bis del codice che riguarda le misure di coercizione indiretta: quindi ha considerato anche l'obbligo di pagamento di somme di denaro per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento di riattivazione del profilo dell'utente.
Nel caso specifico, oltre a ordinare a Facebook l'immediato ripristino del profilo e la riattivazione del relativo accesso alla gestione della pagina, è stato stabilito che il social network deve pagare una penale all'utente di 150 euro per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione del provvedimento.
Il Tribunale di Pordenone ha quindi sentenziato che il provvedimento preso da Facebook viola le stesse norme contrattuali accettate all'atto dell'iscrizione: cioè garantire all'utente di "esprimersi e comunicare in relazione agli argomenti di interesse" così da aiutarlo a "trovare e a connettersi con persone, gruppi, aziende, organizzazioni e altri soggetti di interesse". Nel regolamento del social network si legge anche che "l'utente è libero di condividere i contenuti con chiunque, in qualsiasi momento" e si impegna ad assicurare "l'offerta di esperienze coerenti e senza interruzioni nei prodotti delle aziende di Facebook". Clausole contrattuali che sono state violate dagli amministratori con la chiusura arbitraria e senza contraddittorio del profilo.
Il diritto, in Italia, non prevede che i precedenti diventino
norma, però la sentenza del Tribunale di Pordenone apre sicuramente una nuova prospettiva che, anche in base alle parole del garante della privacy, dovrà essere presa in considerazione sia del legislatore sia dalla giustizia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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