Il film "razzista" che raccontò le contraddizioni d'America

Nel 1956 uscì nelle sale Sentieri Selvaggi, uno dei capolavori di John Ford. La pellicola venne accusata di razzismo contro i nativi americani e fu uno dei primi casi di cancel culture. Ma una lettura non ideologica mostra una storia molto diversa

Il film "razzista" che raccontò le contraddizioni d'America

In tempi di purezza ideologica ci si sta lentamente abituando a prendere posizione in modo radicale. Ad avere opinioni nette, a sposare facilmente un politicamente corretto da manuale. In tutto questo si perdono le sfumature. Si prende ogni prodotto dell’uomo, un film, un libro, una canzone e lo si passa sotto i raggi x del pensiero e si stabilisce via via se è sessista, omofobo, razzista.

In America da qualche anno si dibatte intorno al complesso tema della cancel culture, pensiamo solo alla battaglia contro le statue. Si creano liste di autori e cineasti da evitare perché razzisti o poco attenti alle minoranze e si finisce facilmente all’indice delle opere proibite. Non stupisce quindi che oggi certi film siano automaticamente etichettati come razzisti. Facile leggere qualcosa prodotto 50-60 anni fa con gli occhi moderni. Eppure c’è almeno un caso, in cui si applicò la cancel culture prima ancora che esistesse. Stiamo parlando della campagna contro uno dei film più famosi mai prodotti da Hollywood: Sentieri selvaggi.

Diretto da John Ford, e uscito nelle sale nel 1956, è stato il pilastro del cinema western nel periodo d’oro culminato nei primi anni ’60. Ma questo non l’ha protetto da polemiche critiche. Nel 2012 mentre era in tour a promuovere Django Unchained, Quentin Tarantino riservò a Ford parole di fuoco definendolo razzista, odioso e colpevole di portare avanti “l’idea di un’umanità anglosassone contro il resto dell’umanità”. “Gli indiani dei suoi film - aggiungeva - sono presentati senza volto, uccisi come zombie”.

Una trama complessa

Ma di cosa parla esattamente il film. La trama è complessa, e strutturata e ricca di colpi di scena. La storia, ambientata in Texas, ruota intorno a Ethan Edwards, interpretato da John Wayne, veterano sudista della Guerra di secessione e alla sua ricerca tra le valli del Texas. I soggetti al centro di questa "ricerca" sono in realtà due bimbe, nipoti di Ethan, rapite da un gruppo di indiani Comanche.

Il film, uno dei primi all’epoca, sperimenta anche la dilatazione del tempo e infatti la ricerca delle due bambine dura anni e nel corso di queste ricerche si scopre come il veterano sia in realtà un razzista mosso da un profondo odio nei confronti dei nativi americani, manifestato con un linguaggio e una violenza notevole, fino all’epilogo forte e inaspettato. Ma un protagonista razzista basta a etichettare la pellicola come razzista?

Forse sì a giudicare da quanto avvenne dopo l’uscita in sala. La Argosy Pictures, casa di produzione fondata tra gli altri da Ford, fu costretta a chiudere sommersa dalle critiche per la rappresentazione degli indiani. Già all’epoca il film fu divisivo, e Ford fu costretto a mettersi sulla difensiva e la scelta di mettere in scena un personaggio forte come Ethan lo perseguitò a tal punto che sarebbe tornato a dirigere un western, il suo marchio di fabbrica, solo tre anni dopo con Soldati a cavallo.

Ma tutto quest’odio per quel film era giustificato? In realtà se si evita la purezza ideologica e si analizzano la vita di Ford e il contesto della sua realizzazione tutto assume una luce diversa.

La critica agli eroi

Sentieri selvaggi in realtà è una pesante critica alla società contemporanea, condotta con l’occhio sensibile e attento di Ford. All’inizio, mentre prendiamo confidenza coi personaggi, si tende a osservare Ethan Edwards e a pensare che sia lui il protagonista, ma poi scopriamo che per Ford il personaggio di Wayne è più simile all’America e meno a un ideale eroico. Ethan è prima di tutto uno sconfitto (soggetto caro a Ford fin dai tempi di Ombre rosse), un disadattato che dedica diversi anni della sua vita a una ricerca che tutti abbandonano ma che rappresenta il segno di un uomo incapace di tornare a vivere nel mondo civile.

La violenza e il razzismo messo in scena da Ethan non è altro che quello presente, vivo e vegeto nella società americana di metà '800. Poco a poco che i minuti scorrono ci si rende conto che non c’è niente di eroico nella ricerca del cowboy, che il vagare a caccia di indiani non è qualcosa di cui andare fieri. Il cineasta porta così sul banco degli imputati la storia eroica dell’America bianca: un atto rivoluzionario per l’epoca anche perché l’America del West fu profondamente razzista e anti indiana.

sentieri selvaggi
John Wayne in una scena del film

Gli atteggiamenti eccessivi del personaggio, come promettere una pallottola per la nipote ormai diventata “un avanzo dei Comanche” sono un pugno allo stomaco per lo spettatore e la prova che a processo c’è il “destino manifesto” dell’America. Paradossalmente, nota un’analisti sul sito The Take, il vero cattivo del film è proprio Ethan e non i cattivi indiani stereotipati come dice Tarantino. Persino i pellirossa, che Ford utilizza per dare dinamicità al film come scusa per le scene di battaglia, sono più tridimensionali di quanto vogliano far credere i critici. Il capo degli indiani responsabili del rapimento, Scar (capo scout nel doppiaggio italiano) ad un certo punto racconta il suo odio verso l’uomo bianco colpevole di avergli massacrato la famiglia.

Perché dare spessore a un cattivo capo indiano se l’intento era di fare un film razzista. E ancora, durante una delle tante scene di battaglia tra soldati americani e indiani il regista indugia in un particolare, una scena in cui si vede un nativo portare in salvo due bambini. Anche qui se l’intento era fare un film razzista perché non tagliare l’inquadratura in fase di montaggio.

Le verità dietro al film

Ci sono altri due particolari che aiutano a decodificare il film e che dimostrano come le letture ideologiche, allora come oggi, siano limitate e spesso fuori fuoco. La sceneggiatura della pellicola è in realtà un adattamento di un romanzo di Alan Le May, a sua volta ispirato a una storia vera, quella delle bimba di nove anni Cynthia Ann Parker che nel 1836 venne rapita da un gruppo di Comanche, educata come nativa e poi data in sposa a un capo indiano. Per anni la famiglia di Cynthia ha tentato invano di ritrovarla, fino a che, nel 1860 nella battaglia di Pease River, un gruppo di Ranger del Texas la individuò tra alcuni rifugiati e dopo una serie di controlli incrociati la riportò alla famiglia. Una storia che poi avrebbe anche ispirato alcuni passaggi di un altro western, Balla coi lupi.

Alan Le May nel suo libro romanza la storia di Cynthia e aggiunge anche altri personaggi oltre all’Ethan poi impersonato da John Wayne, in particolare il personaggio di Martin Pawley, figlio adottivo del fratello di Ethan e fratellastro delle due bimbe rapite dagli indiani. Secondo molti Martin è il vero protagonista della storia perché è attraverso i suoi occhi che lo spettatore osserva gli avvenimenti: prima il tragico rapimento delle sorelle, poi la ricerca disperata e infruttuosa e poi il comportamento eccessivo e violento di Ethan che lo porta ad avere posizioni più morbide e moderate.

Monument Valley
La Monument Valley, dove sono state girate alcune scene del film

E proprio Martin è la vera chiave per scagionare Ford. Nel romanzo Martin è un semplice figlio adottivo bianco, ma nel film viene presentato come un meticcio, figlio di un genitore bianco e di uno indiano. Anche qui: perché decidere di modificare un personaggio in questo modo se l’obiettivo era fare un film razzista?

Per tutto il film Martin rappresenta quell’America “buona” che cerca di far convivere il suo essere figlia di un nuovo mondo e non una semplice proiezione anglosassone. Si mostra eroico nel voler sacrificare interi anni della sua vita a cercare le sorelle, ma allo stesso tempo biasima gli scatti di Ethan contro i nativi, per i quali mostra invece curiosità. Ford è consapevole di tutto questo, proprio perché il suo scopo era quello di usare uno dei generi più in voga all’epoca per parlare dei temi che gli erano cari, e come abbiamo visto nessuno i questi era il razzismo.

Dai Western alla guerra e ritorno: la storia di Ford

Gran parte dei western di Ford hanno rappresentato film moderni con personaggi moderni. È negli anni 30 e nella diligenza di Ombre Rosse che nasce l’America secondo il regista. È da un manipolo di disadattati, dall’alcolizzato alla prostituta, che nascono gli Stati Uniti. Allo stesso modo in Sentieri selvaggi Ford esplora la storia sociale degli Usa e non manca di criticare la guerra. Non a caso il suo “protagonista negativo” Ethan sia un reduce di guerra, uno sconfitto del Sud che non si riesce a reintegrare nella società e anzi mostra i segni di uno stress da guerra. E il fatto di mostrarlo come un reduce della Confederazione, senza gli slanci da lost cause tipici di Via col Vento, ne è la riprova.

E Ford sa benissimo da dove pescare, dalla sua esperienza di cine operatore durante la Seconda guerra mondiale. Il regista durante la guerra lascia Hollywood e parte per il fronte filmando prima un documentario sulla battaglia delle Midway e poi sbarcando con gli americani sulle spiagge della Normandia. Esperienze traumatiche per lui, anche nel fisico dato che fu lì che perse il suo occhio sinistro. Difficile quindi non pensare che i suoi film ne avrebbero risentito. Il veterano violento e la furia della battaglia vennero tutti mescolati per creare un film stratificato come Sentieri selvaggi.

Un opera che persino oggi, letta con le lenti del politicamente corretto, sarebbe da mettere all’indice ma che in realtà racconta meglio di molti saggi scritti nei campus ultra liberal cos’è stata la conquista del West, la sopraffazione di un popolo libero e l’inganno del “destino manifesto” che da sempre orienta le scelte di Washington.

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