L’emergenza drammatica rappresentata da centinaia di migliaia di migranti che risalgono lungo la dorsale balcanica in direzione dell’Europa Centrale e, in particolare, della Germania, ha risvegliato l’attenzione dei Media occidentali su uno dei maggiori problemi che travagliano il mondo dalla fine della Guerra Fredda: quello dei profughi, costretti a lasciare le loro sedi originarie da sanguinosi conflitti civili e da sistematiche pulizie etniche. Problema che la crisi siriana ha solo reso evidente ai nostri occhi per troppo tempo distratti, ma che di fatto sussiste sin dall’inizio di questa nuova era, che si era aperta, dopo il crollo del Muro di Berlino, con l’illusione della pace e della fine di tensioni e conflitti. Era della, cosiddetta, Globalizzazione che, non vedendo ormai più il confronto/scontro tra due grandi potenze, sembrava avviarsi a realizzare il “migliore dei Mondi possibili”, come sognato dal dottore Panglosse del Candido di Voltaire e come teorizzato, agli albori degli anni ’90 del secolo scorso, da Francis Fukuyama nel suo famosissimo saggio “La fine della Storia e l’Ultimo Uomo”. Clamoroso errore – ormai riconosciuto come tale dallo stesso politologo nippo-americano – dato che, ben presto, ci si è dovuti rendere conto che questo Nuovo Mondo era decisamente più pericoloso ed instabile di quello dei lunghi decenni di Grande Freddo fra Washington e Mosca.
Era, quella che si apriva con la breccia di Berlino, gravida di problemi, tra i quali, non ultimo, quello delle enclave etniche e culturali ereditate dall’implosione dell’Impero Sovietico – e, in parallelo, di altri sistemi socialisti/federali come la Jugoslavia – e dalla nascita, sulle sue macerie, di nuovi Stati Nazionali. Giovani repubbliche che, per lo più, assunsero fin da principio, i caratteri propri di Stati fondati su una precisa identità etnica e linguistica – talvolta anche religiosa – corrispondente a quella della parte maggioritaria della popolazione; scelta per molti versi inevitabile, visto che rappresentava una sorta di naturale reazione alla negazione delle differenze culturali e delle identità portata avanti, spesso con violenza, durante il periodo sovietico. Ma scelta, al contempo, perniciosa, visto che non teneva conto della complessità del tessuto etnico e culturale di quelle regioni; tessuto che già in origine vedeva la coesistenza di numerose minoranze e che era andato ulteriormente frammentandosi per la politica del Cremlino che, soprattutto nell’era di Stalin, aveva costretto interi popoli a migrazioni forzate, nel tentativo di annichilire le diverse identità per fonderle nel grande calderone sovietico.
Le giovani Repubbliche del dopo Guerra Fredda si sono trovate, così, a dover affrontare il problema di forti minoranze interne, che mal si conciliavano con il dominante etno-nazionalismo divenuto la loro “ideologia” di fondo. Di qui sanguinosi conflitti civili – quelli che ancora covano sotto le ceneri della ex-Jugoslavia tra serbi, croati, bosniaci e kosovari albanesi; quelli della Cecenia, del Dagestan, dell’Inguscezia, dell’Ossezia del Sud nel Caucaso russo; quelli in Asia Centrale, che travagliano l’Uzbekistan; quello, oggi, dell’Ucraina che vede la secessione delle regioni russofone della Crimea e del Donbas – con lo strascico di guerre regionali, pulizie etniche e masse di profughi in movimento. Un dramma che, per oltre vent’anni si è svolto sotto gli occhi, per lo più distratti di un’Europa occidentale che pensava fosse un problema che mai l’avrebbe potta coinvolgere. Miope illusione, come dimostrano le cronache recenti.
La migrazione di milioni di profughi è sia un dramma umano che un gravissimo problema sociale e di equilibri, visto che un’improvvisa marea di questo tipo può avere un impatto devastante sui paesi che, volenti o nolenti, si trovano costretti a subirla, e a cercare, in qualche modo, di governarla. Per questo sono significativi ed esemplari i rari casi in cui l’accoglienza dei profughi si è rivelata efficace e questi sono stati assorbiti ed integrati nel tessuto sociale dei paesi che li hanno ricevuti.
Esemplare, in questo senso il caso rappresentato dall’Azerbaigian, che è il paese europeo che, secondo stime dell’ONU e di altri enti internazionali, ha accolto il maggior numero di profughi, riuscendo ad ammortizzarne l’impatto e sostanzialmente ad integrarli. Infatti, quasi un settimo dell’attuale popolazione della Repubblica dell’Azerbaigian formato da profughi, in stragrande maggioranza azeri provenienti dal Nagorno-Karabach e dalle province limitrofe in seguito al conflitto negli anni ’90 con l’Armenia ed alla occupazione di questi territori da parte dell’esercito di Erevan. Il Nagorno-Karabach era, com’è noto, una enclave a maggioranza armena all’interno della Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian, che si è proclamata indipendente dopo l’implosione dell’URSS, provocando un lungo conflitto fra Baku ed Erevan; conflitto che ha permesso all’Armenia, con l’appoggio russo, non solo di conquistare la provincia contesa, ma anche quelle limitrofe, a netta maggioranza azera; in sostanza quasi un quinto del territorio dell’Azerbaigian.
Regioni dalle quali gli azeri sono stati costretti a migrare in massa – ben oltre un milione di individui – per rifugiarsi nel territorio controllato da Baku, che negli anni ’90 era circondata da una distesa di campi profughi. Ai migranti interni si aggiungevano, poi, altri 250000 azeri originariamente residenti in Armenia e costretti ad andarsene a causa del conflitto, e quasi 200000 turchi mescheti, un gruppo etnico originario della Georgia. Turchi Meskheti già perseguitati da Stalin e, poi, con l’implosione dell’URSS, costretti nuovamente ad abbandonare in massa la regione avita del Samtskhe-Javakheti, nella Repubblica di Georgia, a causa dei continui conflitti con l’altra minoranza locale, di origine armena.
L’impatto di una tale massa di profughi avrebbe potuto risultare devastante per gli stessi equilibri interni della giovane Repubblica dell’Azerbaigian, anche perché, ancora una volta, il Mondo Occidentale e soprattutto l’Europa tenne chiusi gli occhi davanti a tale problema. Tuttavia le notevoli risorse economiche naturali che, intelligentemente sfruttate, hanno permesso all’Azerbaigian, in un ventennio, una grande sviluppo economico ed industriale, hanno reso possibile anche l’attuazione di politiche di accoglienza ed integrazione dei profughi.
Politiche favorite, naturalmente, anche dalla sostanziale omogeneità etnica, linguistica e culturale di questi con il popolo della Repubblica dell’Azerbaigian.Andrea Marcigliano
Senior fellow del think tank "Il Nodo di Gordio"
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