Nel referendum sul Reis si gioca il futuro della Turchia

La vittoria del "sì" può coronare il sogno presidenziale di Erdogan, consegnandogli ancora più potere

Nel referendum sul Reis si gioca il futuro della Turchia

Una scheda su cui non ci sono quesiti, bensì due possibilità di scelta, con la certezza di avere di fronte uno dei momenti politici più rilevanti nella storia della moderna Turchia.

Da un lato il "sì", a una riforma in chiave presidenzialista, con Erdogan a capo di un Paese in cui ancora più poteri saranno concentrati su una carica che fino al suo avvento era più che altro cerimoniale. Dall'altro il "no". No perché rimanga quella repubblica parlamentare che è da decenni, tutto tranne che perfetta, ma che le opposizioni ritengono una garanzia più solida dei contrappesi necessari a evitare che si trasformi in un vero autoritarismo, guidato dall'uomo che ha segnato la scalata politica del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo.

È questo il bivio di fronte al quale si pone oggi la Turchia, divisa dai pochi punti percentuali di sondaggi che a lungo hanno fluttuato tra una vittoria per la tesi della maggioranza e un rifiuto della riforma costituzionale, con ben chiari i contorni del campo erdoganiano e di quello avverso, ma un numero di indecisi alto fino all'ultimo.

Un percorso lungo anni quello che ha portato al referendum sulla Costituzione, accelerato dal golpe di luglio, fallito sulla pelle di 265 persone e per molti il segnale di come un Paese la cui storia è stata costantemente segnata da interventi militari in politica sia definitivamente cambiato e si trovi ora di fronte a una sfida che il partito che lo governa non può permettersi di perdere.

Per settimane la campagna filo-erdoganiana ha occupato ogni istante e ogni spazio della vita pubblica. Una strategia chiara, scriveva venerdì in un editoriale sul quotidiano Hurriyet Murat Yetkin: "Prendere quanti più minuti possibili sulle emittenti, quanti più centimetri possibili sui quotidiani", sfruttando non solo la forza del partito, ma anche la macchina amministrativa. Lasciando poco ossigeno a chi contesta la riforma, impegnato a convincere una fetta di indecisi e pesantemente osteggiato e intimidito, nonostante le rilevazioni parlino di quasi metà Turchia contraria al cambiamento.

A dire "no" sono i membri del socialdemocratico Partito popolare repubblicano (Chp), erede dei principi della repubblica kemalista. Dalla stessa parte della barricata l'Hdp concentrato sulle istanze dei curdi, terza formazione per numeri in parlamento, i cui leader Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag sono in carcere con altri 11 deputati e centinaia di membri del partito, accusati di legami con il Pkk, di nuovo allo scontro con lo Stato nel Sud Est, tra centinaia di morti da ambo i lati.

"Bêjin Na" (di' di no), canta la canzone referendaria del Hdp, bandita in tutta la Turchia per il testo che chiede un "no a una sola bandiera, un solo Stato, una sola nazione", in diretta opposizione agli slogan della maggioranza, ritenuto "un'incitazione all'odio" dalla magistratura, ma voce di quella parte della vasta minoranza che nel partito si riconosce, distinta da quanti tra i curdi, su posizioni più conservatrici, hanno negli ultimi anni preferito il partito di Erdogan.

Il voto dei curdi, accanto a quello degli ultra-nazionalisti del Partito del movimento nazionalista (Mhp) è stata una delle direttrici su cui si è mossa la campagna che ha condotto l'Akp al voto, per superare una Costituzione redatta dai militari e quello che Erdogan ritiene uno Stato "bicefalo".

Proprio al Mhp si è affidato per far passare in parlamento gli emendamenti alla Costituzione, mentre un manipolo di ribelli prendeva una strada diversa, sfidando dall'interno il leader Devlet Bahçeli e richiamandolo alla coerenza con le opinioni espresse in passato, quando alla riforma costituzionale si era dimostrato contrario, giustificando poi il cambio di passo con la convinzione che un uomo forte e solo al comando fosse necessario per il bene del Paese, in un momento di sfide impegnative, in cui la minaccia del terrorismo - curdo o jihadista - colpisce con durezza.

Un pensiero che si trova facilmente nella retorica dei comizi di Erdogan, che ancora in questi giorni è tornato ad accusare l'opposizione, sostenendo che chi sta dalla parte del no "sta a Kandil, a Imrali", sta a Raqqa o in Pennsylvania, di fatto riducendo una composita opposizione al grado di sostenitori di quelli che la Turchia considera a oggi i suoi principali nemici, dal Pkk all'Isis, da Ocalan ai gulenisti, accusati di avere ordito il golpe di luglio e sottoposti da allora a una forte repressione, in un Paese che vive da mesi in stato d'emergenza.

È uno Stato fortemente polarizzato e gravato di problemi quello che va alle urne, che è arrivato a referendum spinto dalla retorica incendiaria di una campagna che ha coinvolto anche l'Europa, in una disputa per il cuore dei turchi che ha fatto leva sui loro sentimenti nazionalistici e su una sindrome da accerchiamento da parte di un'Unione dipinta come distante e "fascista", descritta come mendace controparte di un accordo sui migranti. Perché la Siria, e i tre milioni di rifugiati che vivono all'interno dei confini turchi, sono considerati da molti una sfida quando non un motivo di fastidio.

A fare da controcanto a quel composito campo del "no" che sta all'opposizione c'è tutta quella parte del Paese che ancora vede in Erdogan e nel suo Akp la soluzione migliore ai problemi della Turchia, in primis quanti per anni si sono sentiti messi da parte dal convinto secolarismo della repubblica e che ora sostengono una riforma che può legittimare la concentrazione del potere nelle mani di un solo uomo, ma che cancellerà le corti militari, e sottolineano anche come a lungo l'Akp abbia portato risultati in un'economia ora in affanno e forti investimenti sulle infrastrutture del Paese.

55 milioni di elettori sono chiamati oggi alle urne, tra misure di sicurezza imponenti per sventare il rischio di attacchi, in un Paese dove decine di migliaia di persone sono state arrestate, hanno perso il loro lavoro o subito sospensioni, accusate di far parte della rete di Gulen, di sostenere il Pkk, o semplicemente poco compiacenti, come i molti giornalisti che oggi si trovano in carcere o gli accademici senza più una cattedra.

Se un "sì" dovesse vincere - avverte l'opposizione - poteri quasi illimitati sarebbero

consegnati a Erdogan, che avrebbe un peso ancora maggiore sulla magistratura e sul potere esecutivo e ben poche barriere. Se non dovesse essere così, difficilmente rinuncerà a un sogno di presidenzialismo che insegue da anni.

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