Così hanno ucciso le top model

Belle e famose, le Top Model degli anni '90 hanno segnato un'epoca indimenticabile per la moda. Un'epoca che non tornerà più. Perché il mondo è cambiato, e con esso sono cambiati i canoni estetici del fashion system.

Così hanno ucciso le top model

Belle da togliere il fiato, nelle pose più plastiche che le immortalavano sulle copertine delle riviste che allora erano l'unico modo per ammirarle, le top model degli anni '90, raffinato e incantevole idealtipo della femminilità, hanno segnato, e non poco, l'immaginario di diverse generazioni di uomini e donne che di loro si sono innamorati (ma anche innamorate) e che a loro si sono ispirati e ispirate. In tutto e per tutto.

Il loro fascino ha lasciato un segno indelebile nella società - non solo nel mondo della moda -, e i loro nomi riecheggiano ancora nella memoria. Come esempio di tutti i giorni, o metro di paragone della bellezza per antonomasia. Nomi come Claudia Schiffer, Cindy Crawford, Linda Evangelista, Naomi Campbell, Christy Turlington e una certa Kate Moss, l'inglesina di appena un metro e settanta, due, che fece raccordo come quella che poi fu la new era. Il vero spartiacque tra il passato prostrato alla bellezza sovrumana delle stangone irraggiungibili - quelle che come affermava la canadese Evangelista: “Non si svegliavano per meno di 10mila dollari al giorno” -, e il presente, orientato più verso la "personalità" della modella, che comunque per meno di migliaia di dollari al giorno finisce per non svegliarsi. Una personalità che vuole e deve sovrastare il corpo come involucro. Uccidendo l'idea della donna oggetto. E segnando la via del tramonto per le "supermodelle" come le conoscevamo. Cambiando volti e aspirazioni del fashion system.

Erano note come le "Big Six" loro, un circolo della bellezza che spopolava sulle passerelle di tutto il mondo e che per conto delle maison d'alta moda più importanti avrebbero condizionato, spesso inconsapevolemente, la vita di milioni di persone in tutto il mondo. Come afferma la temibile Miranda Priestly del romanzo cult "Il diavolo veste Prada". Insieme a loro un circuito di altre bellissime, con altezze, fisionomie e misure da manuale: Elle McPherson, Eva Herzigova, e Carla Bruni. Tutti volti che avrebbero continuato ad imporre per almeno un decennio i "canoni" estetici necessari per entrare a fare parte del gioco. Un gioco che reclutava ambasciatrici costrette a rasentare una certa perfezione per mandare avanti un'industria da miliardi di dollari.

Mai si sarebbe immaginato che proprio una di loro, una modella dai canoni estetici decisamente atipici per l'epoca, avrebbe fatto da apripista per una rivoluzione dei costumi che avrebbe messo da parte dogmi alla continua richiesta di fisici statuarie con proporzioni da studiare in laboratorio, forme abbondanti, e gambe da perdere la testa. Kate Moss, la modellina della periferia borghese di Londra che con le sue lentigini, gli occhi leggermente distanti e un'altezza a portata d'uomo - nonostante i tacchi altissimi - ne è diventata l'icona: dimostrando come i canoni della bellezza potessero essere infranti. Da lì infatti la svolta, complice forse una società stufa dell'irraggiungibile e sempre più "liquida" - come teorizzava Zygmunt Bauman - che ha posto le basi per eliminare un concetto univoco di bello, lasciando irrompere l'idea che "bello potesse essere tutto". Un percorso inizianto, pionieristicamente, proprio sulle passerelle di tutto il mondo. Il segno che l'era delle supermodelle era finita; e che quella delle così dette "bellezze imperfette" era appena iniziata.

Fu proprio Claudia Schiffer, l'irragiungibile tedesca, a decretare on un'intervista rilasciata del 2007 la fine di un'era - nonostante gli angeli di Victoria's Secret imperversassero nel mondo, e fossero ancora al sicuro dalle minacce avanzate dalla montante dittatura del politicamente corretto. Per la bellissima infatti la "fine" si notava nel cambio degli interessi. "L'industria della pubblicità" aveva iniziato a rivolgere la propria attenzione altrove. Complice il sempre maggiore successo ottenuto da "popstar e attrici", che avevano rubato la scena e le copertine delle riviste alle top model. E aveva imposto, come era ovvio che fosse,dei canoni estetici diversi. "Le top model come eravamo una volta non esistono più", aveva ribadito la Schiffer. Considerando la brasiliana Gisele Bundchen come l'ultima e degna erede di un club delle "Big Six" che non esisteva più e non sarebbe mai più esistito. Ormai gli occhi, almeno nella moda, erano rivolti a icone come "bad girl" Cara delle Vigne, la sudanese Adut Akech, la davvero unica nel suo genere Winnie Harlow. Altrove spopolava il fenomeno Kardashian.

Colpo di grazia, fu la tendenza dello street style. Mostrata attraverso l'obiettivo di acuti osservatori come Scott Schuman, ha consacrato il passaggio al "modello di tutti i giorni".

Un modello che deve essere ambasciatore di un "concetto" - come la discussa indossatrice armena scelta per Gucci dal visionario, quanto discusso, Alessandro Michele. E che può tranquillamene rinunciare alla bellezza eterea che apparteneva ai vecchi, discussi e rinnegati, fasti della moda. Un modello nuovo, quello che piaccia o meno, si sta imponendo nei nostri tempi.

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