Il Sars-CoV-2 potrebbe tornare a infettare persone già colpite dalla malattia. A suggerirlo sono gli studi effettuati su due pazienti che hanno contratto nuovamente il Covid-19, dopo essere guariti. Ma la possibile reinfezione da nuovo coronavirus genera ancora numerosi dubbi e domande, a cui gli scienziati devono ancora dare una risposta.
I casi di reinfezione
Il primo caso è stato documentato qualche settimana fa dai ricercatori dell'Università di Hong Kong: un uomo di 33 anni, guarito dalla malattia, era stato nuovamente infettato quattro mesi e mezzo dopo il primo contagio. L'anticipazione dell'articolo che descrive il caso, pubblicata sulla rivista scientifica Clinical Infectious Disease, suggerisce che il virus "potrebbe continuare a circolare tra le popolazioni umane". In base ad "analisi epidemiologiche, cliniche, sierologiche e genomiche", i ricercatori hanno infatti stabilito che "il paziente aveva una reinfezione invece di una persistente diffusione virale dalla prima infezione".
Qualche giorno dopo, gli esperti dell'Università del Nevada e del Nevada State Public Health Laboratory, hanno svolto uno studio su un 25 enne, considerato il primo caso di reinfezione negli Stati Uniti (e il secondo nel mondo). Il ragazzo sarebbe stato infettato da due diversi ceppi di nuovo coronavirus: "È stato riscontrato- si legge nell'astratto dell'articolo- che i virus associati a ogni istanza di infezione possiedono un grado di discordanza genetica che non può essere ragionevolmente spiegato attraverso l'evoluzione in vivo a breve termine". I ricercatori hanno quindi concluso che "è possibile che gli esseri umani vengano infettati più volte da SARS-CoV-2, ma la generalizzabilità di questo risultato non è nota".
Per stabilire che si trattasse di due infezioni diverse e non della continuazione del primo contagio, i team di Hong Kong e Nevada hanno sequenziato i genomi virali delle due infezioni: le differenze emerse sono state sufficienti per mostrare che il paziente in questione si era nuovamente ammalato e aveva contratto il virus una seconda volta.
La frequenza e la gravità
I casi sono ancora troppo pochi per chiarire la frequenza con cui potrebbe manifestarsi una seconda infezione. Il direttore della Clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, Matteo Bassetti, invoca cautela: "C'è uno studio su un caso ad Hong Kong su una persona risultata di nuovo positiva dopo mesi. Ma è un solo caso. Stiamo attenti perché non fa letteratura, sarebbe diverso se oggi avessimo migliaia di casi di reinfezioni da Covid-19". Sembrerebbero eventi rari anche a parere dell'Organizzazione mondiale della sanità: una portavoce dell'agenzia, Margaret Harris, ha dichiarato, secondo quanto riporta Lapresse, che la reinfezione con il virus del Covid-19 è possibile, ma che il numero di casi potrebbe essere molto piccolo. Il caso dell'uomo di Hong Kong rappresentava uno su 23milioni di infezioni da nuovo coronavirus confermate in laboratorio in tutto il mondo: "Probabilmente vedremo altri casi documentati- ha detto- ma sembra non essere un evento costante".
I casi documentati sono troppo pochi anche per poter stabilire la gravità delle reinfezioni. Secondo il virologo Jonathan Stoye del Francis Crick Institute di Londra, che a Nature ha sottolineato la variabilità delle situazioni, la gravità della malattia cambia da persona a persona e da infezione a infezione nello stesso paziente. La gravità del Covid-19 potrebbe variare a seconda delle dosi iniziali del virus e della salute generale della persona contagiata, che nel tempo potrebbero cambiare. "Ci sono quasi tante incognite sulla reinfezione quante ce ne erano prima di questo caso" dice l'esperto riferendosi al paziente di Hong Kong.
I dubbi sull'immunità
I casi di reinfezione documentati hanno sollevato dubbi anche sulla durata dell'immunità. Sembra che gli anticorpi neutralizzanti, cioè quelli che impediscono al virus di attaccare le cellule, tendano a scomparire dopo qualche mese dall'infezione. "Oggi sappiamo che chi ha avuto il coronavirus ha una immunità da contatto, ovvero rimangono nell'organismo gli anticorpi neutralizzanti che sappiamo funzionano per 6-12 mesi- ha spiegato Bassetti-In questo periodo è ragionevole pensare che queste persone siano coperte". Ma l'eventuale scomparsa degli anticorpi non implica la perdita totale dell'immunità, perché il nostro sistema immunitario è dotato anche dei linfociti T, che sono in grado di identificare e distruggere le cellule infette. Ma nel caso del Covid-19, non tutti i soggetti infetti sviluppano anticorpi neutralizzanti, come ha spiegato Carlo Federico Perno, direttore di Microbiologia e diagnostica immunologica all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, in un'intervista a Repubblica. "Per ragioni ancora sconosciute- ha spiegato- ci sono persone, almeno la metà, che producono anticorpi non neutralizzanti che rappresentano solo un segnale che si sono infettati ma non ci difendono". Tuttavia, secondo gli esperti dell’Università di Hong Kong, ''non ci sono prove che alcuni pazienti hanno livelli decrescenti di anticorpi dopo pochi mesi''. Il Sars-Cov-2, infatti, potrebbe persistere nella popolazione umana ''come nel caso di altri comuni coronavirus associati al raffreddore, anche se i pazienti hanno acquisito l’immunità post contagio''.
Statnews, che si occupa di scienza e medicina, ha chiesto a un esperto dell'Università del Texas Medical Branch a Galveston, Vineet Menachery, di individuare i possibili scenari futuri relativi all'immunità dal nuovo coronavitus. Secondo il ricercatore esistono 4 possibilità: immunità sterilizzante, immunità funzionale, immunità calante e immunità persa. Nel primo caso, corrispondente allo scenario migliore, il sistema immunitario impara a difendersi dal virus in modo efficace, tanto da rendere quasi impossibile una reinfezione. Ma la sterilizzazione sembra essere lo scenario meno probabile nel caso del Covid-19. Nel caso dell'immunità funzionale, invece, le persone potrebbero contrarre nuovamente la malattia dopo un primo contagio, ma il virus verrebbe riconosciuto dalle difese del sistema immunitario, che si attiverebbero immediatamente per sconfiggerlo, evitando che la mattia diventi grave. Nel terzo scenario, le persone già infettate potrebbero perdere la protezione immunitaria nel tempo, esponendole a qualche rischio in più in caso vengano contagiate nuovamente. Infine, la possibilità più pessimistica prevede la perdita dell'immunità: a quel punto, i pazienti guariti potrebbero essere contagiati una seconda volta, con lo stesso rischio di contrarre la malattia in modo grave.
L'importanza del vaccino
I dubbi sull'immunità e la possibilità di una reinfezione non rendono vani gli sforzi per lo sviluppo di un vaccino contro il Sars-CoV-2. Ci sono antidoti, per esempio, che necessitano di "richiami" per mantenere la protezione contro il virus che combattono. Richard Malley, specialista in malattie infettive pediatriche presso il Boston Children's Hospital in Massachusetts, ha spiegato a Nature che la possibile capacità di reinfezione "non dovrebbe implicare che un vaccino non verrà sviluppato o che l'immunità naturale a questo virus non possa verificarsi", perché sono eventualità che possono verificarsi quando si ha a che fare con un virus. Secondo alcuni esperti, il vaccino potrebbe essere utile a ridurre il rischio che l'infezione causi sintomi gravi. Ma, come ha precisato la portavoce dell'Oms, "con il vaccino, idealmente, si vuole ottenere un'immunità più forte. Questa è una delle cose che si cercano di fare quando si studia quale tipo di immunità stimoli il tuo possibile vaccino".
I casi di reinfezione sono ancora allo studio e devono essere confermati dalla comunità scientifica.
Inoltre, sono troppo pochi per capire quanto frequentemente e con quale gravità possa avvenire un secondo contagio da Covid-19. Per questo, è ancora presto per trarre conclusioni sulla funzionalità del vaccino e sullo spettro del ritorno della malattia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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