Il presidente di Amnesty in Turchia deve restare in carcere

Ribaltata la sentenza che ieri aveva scarcerato Kiliç, accusato di legami con Gulen

Il presidente di Amnesty in Turchia deve restare in carcere

"È devastante per la sua famiglia e una disgrazia per la giustizia". Sono queste le parole con cui Andrew Gardner, ricercatore di Amnesty, comunica a quanti stanno seguendo il processo che il presidente della sezione turca della ong che difende i diritti umani in fin dei conti non potrà tornare a godere della libertà che gli è stata tolta otto mesi fa.

Non più tardi di ieri la terza udienza del processo che lo vede imputato per terrorismo aveva decretato la sua scarcerazione in libertà condizionale, con divieto di viaggio, seguita subito dopo da una nuova richiesta di custodia cautelare sulla scorta dell'appello presentato dalla procura.

A lungo amici e parenti hanno aspettato la sua liberazione a Smirne, dove è detenuto. "Inshallah, presto saremo riuniti e questa separazione avrà fine", aveva detto la figlia Bengisu in un video pubblicato sui social. Poi questa mattina il nuovo verdetto: il presidente di Amnesty dovrà restare in carcere, in attesa di una udienza che si terrà il prossimo 21 giugno.

Nel fascicolo di Kılıç ci sono capi d'imputazione pesanti che lo vogliono legato all'organizzazione di Fethullah Gulen, ritenuto l'ideatore del fallito colpo di Stato del luglio 2016. Accuse che lui personalmente e chi lo sta difendendo ritengono politicamente motivate e portate avanti soltanto per "zittire il dissenso".

Il caso del presidente di Amnesty non è l'unico al vaglio e in questi mesi è stato accorpato al processo che riguarda altri dieci attivisti che si occupano di diritti umani, tutti scarcerati ad ottobre dello scorso anno, pendente processo. Accusati di aver voluto scatenare il caos in Turchia con un incontro sull'isola di Buyukada, la più grande dell'arcipelago che si trova di fronte alla costa asiatica di Istanbul, hanno sempre negato ogni addebito.

Nell'udienza di ieri era stato il proprietario dell'hotel dove gli attivisti si erano incontrati a parlare, mettendo in chiaro come si videro in una sala che viene normalmente concessa ai clienti, senza chiedere particolari misure di sicurezza o di potersi confrontare in privato. Una situazione ben diversa da quella descritta in questi mesi dall'accusa.

"Credo che Amnesty e gli attivisti siano stati processati al solo scopo di intimidire. Non c’è altra spiegazione all’unione dei due casi", ha detto nella sua difesa Kiliç. Arrestato un mese prima dei colleghi, si è difeso in tribunale da chi sosteneva che sul suo smartphone avesse scaricato un'applicazione di messaggistica sicura (Bylock) che in molti processi in corso viene considerata lo strumento con cui i membri della rete di Gulen comunicavano tra loro in segreto.

"Sono ad Ankara per incontrare il ministro degli Esteri Mevlut Çavuşoğlu - ha comunicato su twitter Gauri van Gulik, direttore di Amnesty per l'Europa - Sono grata del suo tempo. È chiaro di che cosa discuteremo. #FreeTaner".

La decisione della magistratura di ribaltare la sentenza in meno di ventiquattr'ore, dopo otto mesi di detenzione per il presidente di Amnesty, fa scalpore ma non è un caso a sé

stante. A gennaio, nonostante una sentenza della Corte costituzionale, un tribunale di primo grado si è rifiutato di scarcerare gli intellettuali Şahin Alpay e Mehmet Altan, in detenzione preventiva da luglio e settembre 2016.

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