Terror Haza, a Budapest il museo degli orrori del comunismo e del nazismo

Nell'ex sede delle milizie filonaziste poi divenuta quartier generale della polizia politica dell'Ungheria stalinista, una mostra ricorda gli orrori dei totalitarismi del Novecento in terra magiara

Terror Haza, a Budapest il museo degli orrori del comunismo e del nazismo

Andrassy utca, numero civico 60. Praticamente nel mezzo del viale più importante di Budapest. Da un lato l’Opera, la grande storia della cultura musicale ungherese, dall’altro la maestosa Piazza degli Eroi, la piazza-monumento che celebrò, alla fine del diciannovesimo secolo, il millesimo anniversario del regno magiaro.

Andrassy utca numero civico 60 non è un ricordo glorioso per gli ungheresi. Anzi. Era la Casa della Lealtà. Oggi è la casa del Terrore. Qui si trova, infatti, il museo dedicato all’orrore del nazismo prima e del comunismo poi. È il Terror Haza, ha un nome che suona come quello di una giostra, di un’attrazione da luna park. Sembra una Casa delle Streghe, ma tutto quello che c’è lì dentro è stato terribilmente reale, vero. Altro che mostri, qui ci sono tutti i fantasmi (autentici) di un secolo intriso di odio e violenza. Tutti gli orrori del nazismo e del comunismo in una mostra da non perdere, per non dimenticare di quanto sangue innocente si sia sporcata la storia recente dell'Europa e del mondo.

L’esposizione è allestita su tre livelli. In mezzo, una corte interna in cui c'è un carro armato. Un muro alto quanto l’edificio ospita centinaia di fotografie. Sono quelle delle vittime innocenti dei rastrellamenti nazisti e delle epurazioni comuniste.

Il criterio metodologico è quello temporale. Si comincia da Versailles a raccontare il secolo nero dell’Ungheria. Prima ancora di entrare ci si imbatte in una profezia. “Sono l’ultimo governante del mondo antico”. Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria e Re Apostolico d’Ungheria, non fece in tempo ad assistere alla disgregazione definitiva di quel mondo. Morì nel 1916, eppure capì prima di tutti (anche prima dello Zar di tutte le Russie) che dalla Prima Guerra Mondiale non si sarebbe salvato nessuno. È lui che accoglie i visitatori del Museo. Al suo fianco ci sono dei video, che mandano a loop la disperazione di un uomo che in un filmato in bianco e nero piange come un bambino. Disperato, quando ricorda delle torture e delle impiccagioni, si chiede “Perché?”

Dopo la Grande Guerra, il Paese segue il destino dell’Austria e finisce praticamente smembrata, perdendo quasi i due terzi del suo territorio originario. Le conseguenze del conflitto pesano al punto da trasformare l’austero e orgoglioso regno fondato da santo Stefano in uno degli Stati più deboli di tutta Europa. Intanto scoppia la Seconda Guerra Mondiale e Budapest si schiera con l’Asse. Cerca, come Berlino, la revisione del trattato di Versailles. È il 1941. Passano tre anni e la situazione si fa drammatica, il governo ungherese tenta di svincolarsi dall’alleanza col Reich e così la Germania nazista occupa e impone un “suo” nuovo governo. È il 1944, iniziano i rastrellamenti. Per gli ebrei e i dissidenti non c'è scampo. Chi si oppone finisce ad Auschwitz. In quella odiosa fabbrica di morte, periranno quasi tutti. L’edificio di Andrassy utca è la centrale delle milizie filonaziste. Presto diventerà la sede della polizia politica comunista.

La guerra infatti finisce male per i tedeschi, stritolati nella morsa dell’avanzata angloamericana da Ovest e di quella sovietica da Est. Al termine del conflitto accade che le strade di Austria e Ungheria, fino a quel momento unite, si separano. Vienna finisce nell’orbita occidentale, Budapest è occupata dall’Armata Rossa. L’Urss di Stalin impone il socialismo, comincia l’era di Matyas Rakosi il “miglior discepolo ungherese di Stalin”.

Forse è anche per questa sua convinzione che il comunismo magiaro risente delle paranoie staliniste. Finiscono nei campi di lavoro forzate migliaia di persone. Sono tutti nemici della rivoluzione. Secondo quello che racconta il Museo, in questo periodo sono state arrestate e deportate più di 40mila persone. Cattolici, possidenti, ex filonazisti, funzionari di partito colpevoli di essere dalla parte dell’epurato ragazzi e ragazze semplicemente sospettati di attività reazionarie ed eversive. Dagli studenti, che non ne potevano più del servizio militare obbligatorio e delle massacranti lezioni di russo, agli alti prelati, come il cardinale Jozsef Mindszenty, primate d’Ungheria, già fiero avversario del nazismo che fu prelevato, nel giorno di Santo Stefano del 1948, dalle milizie comuniste e sottoposto a ogni genere di torture affinché confessasse le accuse di cospirazioni e sedizione. I morti sono centinaia, gli storici stimano in almeno duemila le persone che hanno perduto la vita a causa delle "purghe" all'ungherese.

Tra le sale del Museo ci si ritrova a respirare l'asfissiante aria di uno stato di polizia socialista. Nelle ricostruzioni storiche degli uffici della polizia segreta dell’Ungheria del tempo niente è lasciato al caso: sulle scrivanie ci sono persino copie d'epoca della Pravda. Le atmosfere sono uguali a quelle che, ancora oggi, è possibile respirare in alcuni luoghi di Berlino Est. I ritratti di Stalin, i polverosi fascicoli, tanti da strabordare dalle pareti, da diventare una delle chiavi di lettura del Terror Haza. Ogni cartella, ogni vita umana resa pratica legale e burocratica è restituita alla sua dignità dalle foto e dai video con le interviste e le testimonianze di chi quegli orrori è stato costretto a viverli sulla sua pelle. Una cappa insopportabile. Fatale che finisse come è finita nel ’56, un intero stanzone è dedicato a quella rivolta. I tricolori magiari liberati dalla stella rossa, dal martello e dalla spiga, quel murale storico: “Ruszik haza”, l’urlo dei rivoltosi ai soldati sovietici mandati da Mosca, con i carri armati, a sedare nel sangue la rivolta di Budapest.

Non è finita ancora, perché al Terror Haza sono state ricostruite, in maniera meticolosa, le prigioni in cui venivano rinchiusi i dissidenti. Celle minuscole, senza luce, con un pezzo di legno per letto. L’orrore del carcere era secondo solo a quello delle esecuzioni. L’impiccagione come atto burocratico: tre scalini, la corda intorno al collo, un crac e il referto del medico legale a certificare la rottura della spina dorsale e la morte del prigioniero che, intanto, era già stato totalmente isolato dal mondo esterno, dalla famiglia, dagli amici.

Il museo di Andrassy utca è un luogo da visitare perché non si perda la memoria.

Perché non accada più che, in nome di ideologie disumane e disumanizzanti, ci si trasformi in automi assetati di sangue, pronti anche a giustificare torture e omicidi in nome di rivoluzioni impantanatesi nelle microspie e nelle carte bollate. Per far sì che mai più ci si trasformi in quelli che già nell'Ottocento, un gigante come Fedor Dostoevskij aveva definito "I demoni".

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