La visita a Taiwan della presidente della Camera Nancy Pelosi e la risposta militare cinese hanno evidenziato la gravità dei rapporti tra Stati Uniti e Cina, giunti ai loro minimi storici. Pechino ha innalzato il livello di escalation per lo Stretto stabilendo un nuovo status quo delle operazioni militari rappresentato sia dai tiri missilistici, sia dalle incursioni di velivoli nella Adiz (Air Defense Identification Zone) di Taipei, oltrepassando la “linea mediana” passante nello Stretto numerose volte. Una demarcazione totalmente fittizia per la Cina, ma che precedentemente era stata relativamente rispettata dalla Plaaf (People's Liberation Army Air Force) durante azioni di questo tipo, che hanno coinvolto lo spazio aereo dell'Adiz a sud e a nord di Formosa.
In alcuni ambienti statunitensi, pertanto, una guerra con la Cina per Taiwan è passata da essere uno scenario remoto a uno spaventosamente plausibile. Del resto la Difesa Usa da tempo si sta preparando al confronto bellico col suo rivale globale principale: tutte le forze armate statunitensi hanno lanciato nuovi programmi di acquisizione di armamenti e stanno rimodulando le proprie forze per fronteggiare un avversario convenzionale, dopo decenni passati a occuparsi di counterinsurgency e counterterrorism. Eppure oltre Atlantico c'è chi ritiene che non si stia facendo abbastanza, e che gli Stati Uniti non sembrano prepararsi adeguatamente a un simile conflitto nonostante gli impegni presi negli ultimi anni. All'amministrazione Biden si lamenta che non stia facendo seguire il giusto approccio di sostegno militare nell'area alla retorica di difesa dell'indipendenza dell'isola, e si pensa che avrebbe più senso che Washington si comportasse come se gli Stati Uniti potessero essere sull'orlo di una guerra con una superpotenza rivale dotata di armi nucleari. Per l'ex vicesegretario alla Difesa Usa, Elbridge Colby, i cambiamenti apportati finora non sono all'altezza dell'urgenza e della portata della minaccia rappresentata dalla Cina.
Quello che è certo è che la Repubblica Popolare è nel pieno di un processo di rafforzamento militare, che include l'espansione delle sue forze nucleari, lo sviluppo di una marina oceanica e rapidi progressi nelle tecnologie militari dirompenti (intelligenza artificiale, sistemi ipersonici e tecnologia quantistica) che sotto alcuni aspetti superano il livello di quelle statunitensi, in colpevole ritardo, ad esempio, nel settore ipersonico, che pur sta vedendo progressi importanti che colmeranno presto il divario. L'amministrazione Biden considera ora attentamente la possibilità di un'invasione cinese di Taiwan, quando sino a qualche anno fa la possibilità era data come remota: valutazioni supportate sia dagli eventi sopracitati, sia da allarmi dell'intelligence che riportano come la minaccia sia “acuta” e pari a quella di invasione dell'Ucraina nei mesi precedenti l'attuale conflitto in atto. Funzionari del Dipartimento della Difesa hanno anche sottolineato che un fait accompli cinese a Taiwan è un pericolo reale e urgente e allo stesso tempo ci sono seri dubbi sul fatto che gli Stati Uniti possano effettivamente vincere una guerra contro la Cina per Taiwan. Probabilmente ci troviamo all'inizio di una dinamica molto più aggressiva della Cina, innescata pretestuosamente dal viaggio della Pelosi. Al momento i cinesi potrebbero non essere pronti a un conflitto aperto per Taiwan, e riteniamo che sia proprio per questo che non lo vogliono, ma l'opzione militare è sempre stata sul tavolo, come apertamente affermato in più di un'occasione dallo stesso presidente Xi Jinping, che si avvia a un terzo straordinario mandato. Il problema di un'invasione è legato alla sua segretezza: l'ammassamento di forze sarebbe visibile con largo preavviso, ma i cinesi stanno ovviando a questa problematica aumentando la loro presenza militare permanente lungo la costa e soprattutto effettuando missioni di penetrazione nella Adiz di Taiwan con costanza per assuefare le difese dell'isola e gli osservatori alleati, in modo da conservare l'effetto sorpresa in caso si decidesse per l'attacco. In questo scenario in peggioramento, l'amministrazione Biden ha segnalato decisamente e più volte che gli Stati Uniti verranno in difesa di Taiwan, rafforzando ulteriormente la percezione che la credibilità americana in Asia sia legata al destino di Taiwan.
Queste affermazioni non sono state confinate al livello politico. Sul versante militare, oltre ad avere identificato la Cina come avversario principale della propria strategia di difesa nazionale, il Pentagono ha formalmente designato Taiwan come il fulcro di uno “scenario che detta il passo” e ha sottolineato il suo impegno a contrastare la capacità della Cina di portare a termine con successo un eventuale attacco. Secondo alcuni però le azioni dell'amministrazione Biden per aumentare la capacità di deterrenza convenzionale nella regione che potrebbe effettivamente contrastare l'invasione cinese di Taiwan non sembrano corrispondere alla sua retorica: si spenderebbe poco nel settore Difesa se rapportato a quanto fa la Cina in percentuale, e più in generale anche alleati degli Stati Uniti molto importanti, come il Giappone, non spendono a sufficienza. Il rischio, per i Paesi della regione, è che se non rafforzano adeguatamente le proprie forze armate, si vedranno costretti ad accordarsi con la Cina per via della minaccia della sua potenza militare. La questione non è solo legata a Taiwan: se la Cina è pronta ad attaccare l'isola, quindi a sobbarcarsi le conseguenti sanzioni internazionali, perché dovrebbe limitarsi a quel fronte? Probabilmente, infatti, il primo colpo del nuovo conflitto sarà sparato nel Mar Cinese Meridionale, dove Pechino ha militarizzato le isole che ha occupato illegalmente nell'arcipelago delle Spratly e soprattutto sta avviando un processo di nazionalizzazione di quello specchio d'acqua conteso. Anche qui la Cina ha dimostrato, ancora una volta, di utilizzare la tattica del fait accompli, e proprio in forza di questo ha lanciato il suo guanto di sfida al sistema di regolamentazione internazionale. Si tratta di una sfida globale, comprendente anche la Russia, tra potenze revisioniste e conservatrici: da un lato, infatti, siede chi vorrebbe riscrivere le regole del consesso internazionale secondo i propri principi, dall'altro chi invece difende lo status quo. Le continue missioni Fonop (Freedom of Navigation Operations) che gli Stati Uniti conducono nei mari contigui alla Cina (e conducevano nel Mar Nero prima del conflitto), si spiegano proprio in funzione della difesa del principio di libertà di navigazione sui mari (e nei cieli). È un confronto epocale che contrappone chi vorrebbe nazionalizzare certi spazi (India compresa) e chi invece si batte per mantenerli aperti e liberi. Il conflitto in Ucraina si spiega anche (ma non solo) in questo senso: la Russia ha avviato l'invasione per dimostrare la fallacia del sistema internazionale attuale e soprattutto la volontà di porsi come nuovo ente regolatore secondo i propri principi, condivisi anche dalla Cina. La guerra in Ucraina rappresenta un precedente importante, attentamente valutato da Pechino, che sta osservando le reazioni della comunità internazionale all'invasione russa in funzione delle opzioni da perseguire per far ritornare Taiwan in seno alla madrepatria, ma anche per la prossima attività nel Mar Cinese Meridionale. La risposta statunitense, pertanto, non può che essere intransigente, sia per questioni di prestigio internazionale (una risposta inefficace verrebbe letta come un segnale di debolezza dagli alleati nell'Indo-Pacifico), sia per continuare a preservare i propri interessi di potenza globale. Lo strumento militare Usa, però, potrebbe non essere all'altezza di un confronto tout court con la Cina, in quanto il conflitto sarebbe combattuto a poca distanza dal continente asiatico dando a Pechino il vantaggio di poter mobilitare in breve tempo tutte le sue forze, mentre gli Stati Uniti dovrebbero far affidamento sulle proprie basi oltre mare (Giappone e Corea del Sud) e su quelle nel Pacifico (Guam, Hawaii), con l'incognita data dall'atteggiamento di altri partner, come le Filippine o il Vietnam, che potrebbero facilmente non prendere posizione e negare l'accesso alle forze Usa temendo che Washington non si ingaggi a fondo per la loro difesa, dato il precedente visto in Afghanistan. Pertanto il Pentagono dovrebbe fare affidamento quasi totalmente sulla propria capacità di proiezione di forza, che al momento è in fase di rimodulazione. Se negli Stati Uniti c'è la percezione che non si possa vincere un futuro conflitto con la Cina per via delle condizioni delle proprie forze armate, a Pechino da tempo c'è chi ha la percezione che invece si possa combattere e vincere, sia per via dei segnali lanciati da Washington, letti come di debolezza, sia per la fiducia nei progressi tecnologici e numerici del People's Liberation Army. Tutti questi fattori messi insieme sono potenzialmente disastrosi, perché dipingono uno scenario “ora o mai più”.
Detto questo non sappiamo se la Cina attaccherà Taiwan in questo decennio, ma è ragionevole presupporre che Pechino abbia molte più probabilità di colpire se conclude che avrebbe successo, e fattori significativi indicano che potrebbe giudicare questo decennio come il più propizio. Gli Stati Uniti e i loro alleati si stanno avvicinando, o forse stanno già affrontando, una finestra di vulnerabilità su Taiwan e sul Mar Cinese Meridionale, e i cambiamenti della strategia di difesa non si attuano in breve termine: le decisioni prese ora impiegheranno anni, se non decenni, a dare i loro frutti.
Di conseguenza, gli Stati Uniti si trovano a dover esprimere una capacità di deterrenza convenzionale efficace rapidamente e con decisione ora se vogliono scongiurare il conflitto aperto, non solo per affrontare la minaccia immediata, ma anche per sperare di essere pronti nel prossimo decennio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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