Posto che Vladimir Putin, purtroppo, è tremendamente lucido nella politica di potenza che persegue ai danni dell'Ucraina, sarebbe miope da parte dell'opinione pubblica occidentale ignorare le basi di pensiero che possono averne ispirato le strategie lungo gli ultimi vent'anni. Un episodio può essere rivelatore: secondo un articolo del New York Times del 3 marzo 2014 - all'indomani, quindi, della cosiddetta "rivoluzione di Maidan" che mise in fuga l'allora presidente filo-russo Viktor Janukovyč - il numero uno del Cremlino non molto tempo prima aveva regalato ai governatori regionali della Federazione Russa un tris di volumi di filosofi patrii dell'Otto-Novecento. Le opere erano: "I nostri compiti" di Ivan Alexandrovich Ilyin; "Filosofia della diseguaglianza" di Nikolaj Berdjaev; "Giustificazione del Bene" di Vladimir Sergeevič Solov’ëv.
È interessante notare, innanzitutto, che tutti e tre gli autori cari a Putin non siano affatto riconducibili al comunismo che in Russia, prima con Lenin e con Stalin e poi in tutto l’arco della storia sovietica, trovò la sua sede d’elezione mondiale. Anzi, Ilyn e Berdjaev, anti-bolscevichi, dovettero imbarcarsi nella famosa ‘nave dei filosofi’ che nel 1922 salpò per l’estero dopo l’espulsione, decretata su diretto ordine di Lenin, degli intellettuali sgraditi al nuovo regime dei Soviet. Il primo ha ricevuto un trattamento di particolare onore da Putin, che si è interessato affinchè i resti tornassero in patria, nel 2009. Anche il secondo visse fino alla morte in esilio, denunciando l’oppressione del socialismo reale.
In secondo luogo, comune alla triade ‘putiniana’ era una sensibilità metafisico-religiosa di matrice cristiana (benché, soprattutto in Berdjaev, con accenti esistenzialisti fortemente critici delle istituzioni ecclesiastiche). Anche questo torna, dal cinico punto di vista di gestione del potere da parte di Putin, se si pensa allo stretto legame che quest’ultimo ha coltivato con la Chiesa Ortodossa. Un bastione di consenso che attraverso il patriarca di Mosca, Kirill, non ha mancato di far avere il suo appoggio all’invasione, alias “operazione militare speciale”.
Terzo, andando a scavare un po’ nelle opere citate, si individua un filo conduttore che può rischiarare i fondamenti ideologici del ventennio putinista. Solov’ëv, vissuto nella seconda metà dell’Ottocento, amico di Dostoevskij, propugnava una società ri-cristianizzata grazie all’alleanza fra i tre mastici dell’armonia umana: famiglia, Chiesa e Stato. Ossia, alla grossa, i pilastri del conservatorismo autoritario in auge oggi a Mosca. Berdjaev, pensatore speculativo puro, guardava a un modello ideale di democrazia come metodo di selezione dei migliori, una sorta di ‘aristocrazia delle masse’ senza più l’idolatria del suffragio universale, sorta di via mediana fra individualismo e collettivismo. Se si vuole, una versione nobile, e di cui chiaramente il filosofo non porta alcuna responsabilità retrospettiva, dell’oligarchia che attornia l’autocrate russo. Ilyn, teorico più politico, sulla scia del dibattito panslavista che infuocò l’intellettualità russa fra i due secoli metteva in guardia dal pericolo rappresentato da un Occidente che minacciava l’anima russa, lanciando già a quei tempi l’allarme sull’Ucraina, vista come punto d’attracco per sommergere la Russia di idee occidentali.
Idee giudicate estranee come il liberalismo, che Putin, intervistato nel 2019 dal Financial Times, ha liquidato come “un’idea che ha esaurito il suo scopo”.
Aggancio chiarissimo, sia pur per ragioni di realpolitik, a una tradizione tutta russocentrica che il neo-zar si premura di rivendicare per conferire alle scelte del suo governo un messaggio culturale netto: la sua Russia si rifà a pensatori propri, che non hanno a che fare né con il passato comunista, rispetto al quale anzi si esaltano gli allora dissidenti, né con il disprezzato Occidente liberale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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