Qual è il confine tra il bene e il male. Qual è il limite oltre cui la giustizia diventa ossessione. Fino a che punto si può derogare dalle regole, dalle legge. A che punto il fine non giustifica più i mezzi. Su questi temi - intriganti, importanti, seducenti - si gioca la serie Il Re con protagonista Luca Zingaretti, imperatore di un istituto carcerario (San Michele, ambientato a Trieste ma girato a Torino) che governa con pugno di ferro in spregio alle normative e quasi alle stregua del sistema dei (non) valori dei detenuti stessi. Alla seconda stagione in partenza venerdì su Sky e Now, la serie prodotta da Fremantle - dove ritroviamo Isabella Ragonese, Anna Bonaiuto, Barbora Bobulova - pare ancora migliore della prima quanto a tensione narrativa, capacità interpretativa e scrittura.
Intanto si parte subito con un vero e proprio crash test: il direttore del carcere Bruno Testori diventa detenuto, accusato di ogni nefandezza nella gestione dei prigionieri. Con tutto ciò che questo comporta, in primo luogo la vendetta da parte dei reclusi. «Per lui così abituato a forza e prepotenza - spiega Zingaretti - è uno shock ritrovarsi nell'incertezza, alla mercé della violenza. Si deve mettere in discussione, capire come fare a uscire da quell'inghippo». Senza svelare troppo la trama agli spettatori, nel dipanarsi del racconto si capirà perché è finito dietro le sbarre e come potrà tornare al suo posto di comando.
«Questo incipit narrativo - spiega uno degli sceneggiatori, Alessandro Fabbri - permette di dare nuova linfa al racconto, mettendo alla prova il personaggio, per capire chi sono i veri cattivi. Bruno incontrerà anche un suo doppio, un magistrato che arriverà nel penitenziario accusato di omicidio, un uomo di giustizia disposto a fare del male come lui». E, in un gioco complesso, il potere vero, incarnato dai servizi segreti, si mostrerà ambiguo, manipolatorio e sostanzialmente immorale. Un potere che non conosce empatia e misericordia. Doti che, pure nel suo sistema spietato, Bruno era riuscito a preservare e che ora, per salvarsi, sarà tentato a rinunciarvi.
«Questa serie - tiene a precisare Zingaretti - non è una denuncia contro lo situazione delle carceri in Italia che, pure, sappiamo benissimo, versa in condizioni pessime. E lo testimonia l'aumento dei suicidi dei detenuti. E non è neppure una risposta alle critiche verso un governo di destra che vuole dare risposte semplici a questioni complesse. La scelta di questo genere di fiction, il prison drama, è stata fatta per creare una situazione claustrofobica in cui le relazioni tra gli esseri umani diventano ancora più deflagranti». Non di meno, per l'attore venire in contatto con i reclusi veri è stata un'esperienza importante: «Abbiamo toccato con mano come, nonostante le enormi difficoltà, dietro le sbarre ci sia tanta umanità e grande solidarietà».
E, nonostante sia ovviamente ben distante da lui, Zingaretti prova grande simpatia per il suo personaggio: «Io non lo giudico, così come non giudico mai i personaggi che interpreto: Bruno è un servitore dello Stato che ha perso la bussola, perché la sua missione è diventata la sua ossessione, ma non agisce per benessere personale, piuttosto per un senso morale superiore che lo porta a fare cose alquanto discutibili». Un ruolo che lo ha così appassionato da essere disponibile per una terza serie, se si farà.
Del resto lui - Montalbano forever - è abbonato alla lunga serialità: «Sono sempre stato un attore incosciente, non metto in conto le conseguenze delle mie scelte. Ho fatto con gioia Montalbano e l'ho lasciato quando faceva il 45 per cento di share. Ho accettato questo ruolo solo perché mi intrigava, e mi pare di aver scelto bene».
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