Morte e rinascita del Buddha sull’Himalaya

Più che una lettura, è un’esperienza, un incontro. Questo è Himalaya Buddhista (L’Ippocampo): un viaggio in capo al mondo con l’uomo più felice del mondo. Si direbbe una favola e non si vorrebbe che lo fosse. Non lo è. A documentare la realtà del racconto di Matthieu Ricard, autore della maggior parte dei testi, filosofo e fisico francese che, compiuti gli studi di genetica cellulare, vive in Nepal dagli anni Settanta votato all’ascesi spirituale, ci sono gli oltre 150 scatti realizzati da Olivier e Danielle Föllmi, il fotografo ufficiale del Dalai Lama e dalla moglie che, da venticinque anni lo accompagna tra le Alpi svizzere e l’Asia. A certificare poi l’eccezionale felicità del narratore, ci sono le analisi compiute da un gruppo di neuroscienziati dell’Università del Wisconsin che, qualche anno fa, applicati i loro elettrodi sulla fronte del monaco in meditazione, registrarono in lui la massima concentrazione di pensieri buoni monitorati sotto forma di onde alfa. E notarono l’assenza, nel suo encefalogramma, delle tracce di emozioni negative: odio, egoismo, orgoglio, invidia che - c’è da stupirsi? - producono sulla psiche cioè sull’anima un effetto tossico deleterio.
Superati a pieni voti gli esami clinici del buonumore, si può tirare un sospiro di sollievo. E risparmiarsi di incominciare il viaggio sul tetto del mondo in compagnia dell’uomo più felice del mondo con un «C’era una volta...». O con «C’era una volta il Tibet». Qui infatti non si raccontano favole. Si affronta, sì, e come evitarlo, raccontando la grande storia del buddhismo himalayano, anche la stagione attualmente attraversata dal Paese delle Nevi: il presente momento di vita - di morte? - di una terra minacciata dal dragone cinese, occupata dalla potenza straniera, saccheggiata dei tesori custoditi nei templi distrutti, disboscata delle sue foreste, prosternata dalle carestie, estenuata dall’agricoltura collettiva. Privata, insomma, dell’equilibrio di un ecosistema delicato, delle proprie colture tradizionali e della sua cultura.
Ma non è che una stagione. Non appare che come un momento nella prospettiva lungimirante, chiaroveggente, forse preveggente e certo ottimista di uno sguardo aperto dal “risveglio” e “illuminato” da fiduciosa devozione quale è quello del monaco-filosofo Ricard. È solo un capitolo in questa narrazione di amplissimo respiro, uno su quattro e non l’ultimo che, intitolato alla concezione buddhista della «Morte», segue quelli sulla «Nascita» e la «Vita» e precede quello dedicato alla «Rinascita» intonato nel finale come il preludio di un ritorno.
Si girano così, come un rosario, le pagine di questo libro-monumento salutato come un capolavoro quando uscì in Francia nel 2002. Si ha l’impressione di maneggiare un’opera d’arte, dalla quale si apprende che l’arte e le sue opere nel mondo buddhista altro non sono che uno strumento di conoscenza, l’attrezzo per la pratica di un esercizio dello spirito. In qualsiasi punto si apra il volume ci si trova a una tappa che, «come un intreccio di perle», è connessa saldamente a tutte le altre, al di là dei limiti geografici o temporali, dei confini tra sacro e profano, delle gerarchie spirituali.
Ciascun episodio rievocato nei brevi articoli di cui il testo si compone, tratto dal passato remoto o dalle cronache recenti, dagli insegnamenti dei maestri o dai diari di viaggio, o dai ricettari dei medici, i breviari dei monaci, le cartografie degli astrologi, i taccuini di artisti e artigiani, concorre alla composizione di un quadro e un orizzonte che non occorre esser buddhisti per riconoscere e fare proprio.
Il buddhismo non è una religione. Né il Buddha è un santo, un profeta o un dio cui si possa o debba credere alla cieca come a un dogma. Una comprensione intelligente delle sue ragioni, una «simpatia» o «compassione» per i suoi sensi produce su un occidentale di qualsiasi credo un benefico effetto di apertura.
Si badi, però, qui non si specula: non si trascende in filosofia più di quanto si raccontino favole. La sapienza orientale sarebbe svilita da una mera curiosità intellettuale. Anzi, per un maestro buddhista l’ostinazione concettuale avvelena la mente come una smania nefasta o come il demone dell’ego.

Per capire a fondo il significato della bellezza, della ricchezza, di devozione o compassione, basta guardare anche in fotografia il contegno di una madre e la dignità di un vecchio davanti al fuoco negli inverni dello Zanskar, il portamento di un pastore del Ladakh o degli «Uomini dei Pascoli» tra le saline del Cangtang, il Dalai Lama che appoggia la sua fronte a quella di un bambino, i pellegrini di Lhasa che, i volti radiosi, passano oltre e guardano oltre il corteo dei soldati cinesi allineati con la mitraglietta spianata sulla strada che porta al tempio di Jokhang.

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