C'è un aneddoto, magari trasfigurato nella leggenda, non si sa, ma molto indicativo. Quando Buzzati era già Buzzati, uno dei più popolari scrittori italiani del suo tempo, accadde che un giorno Giovanni Spadolini, potentissimo direttore del Corriere della sera, gli fece fare un'anticamera di ore. Era l'inverno del 1971. Buzzati era devastato dal cancro e sarebbe morto di lì a poco. Si sedette per terra, sfinito, appoggiato al muro del corridoio, ad aspettare, come un eroico soldato del suo giornale.
Scuola Allievi Ufficiali della caserma Teuliè di Milano, un anno di servizio militare da cui, nel 1927, venne congedato con il grado di sottotenente e poi, a un certo punto della carriera giornalistica, anche inviato di guerra, Buzzati si terrà sempre cucite addosso le regole, i riti e la disciplina della vita militare, tanto da ispirare - è difficile negarlo - i suoi due capolavori, Il deserto dei Tartari e il postumo Il reggimento parte all'alba.
È difficile negare l'inquietudine, il mistero, l'ambiguità che ancora sprigiona un libro magico e senza tempo, essendo una formidabile riflessione letteraria sul Tempo, come Il deserto dei Tartari, di cui ora Lorenzo Viganò - il buzzatiano par excellence - cura una nuova edizione pubblicata da Mondadori, dove al romanzo, fra i più letti del nostro Novecento, si affiancano materiali mai visti prima, custoditi nell'archivio di famiglia. Sono due inediti: un paio di fogli di appunti che svelano l'idea originaria del romanzo e la sua prima struttura; e un lungo trattamento cinematografico scritto dallo stesso Buzzati, e mai utilizzato, che mostra come l'autore immaginasse esattamente un film tratto dal suo libro più famoso. E in entrambi casi le novità sono molte.
Ma prima è il caso di ricordare, invece, ciò che è noto. Ossia: che Buzzati, entrato ventiduenne al Corriere della sera, nel 1928, inizia a pensare e poi a scrivere Il deserto dei Tartari già alla fine degli anni Trenta, durante i pesanti turni notturni in redazione, dentro un palazzo di via Solferino che era la sua personale Fortezza Bastiani («Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se la grande occasione sarebbe venuta o no», avrebbe ricordato anni dopo, a successo ottenuto), fra una monotona routine giornalistica e l'attesa di una gloria professionale che tardava ad arrivare. Poi: che il romanzo uscì da Rizzoli nel 1940 - pochi giorni prima dello scoppio della guerra - nella neonata collana «Il Sofà delle Muse», diretta da Leo Longanesi, il quale cambiò il titolo scelto dall'autore (un più semplice La fortezza). Che il romanzo fece scoprire a un'intera generazione, la «Generazione del Deserto» la definì Giulio Nascimbeni, una nuova letteratura legata «a una condizione umana non propriamente eroica». E che, dopo tanti progetti, vicissitudini, cambiamenti, il romanzo divenne un film solo nel 1976 (Buzzati era morto da quattro anni), diretto da Valerio Zurlini, girato nell'Iran sud-orientale, nell'antica fortezza di Arg-e Bam (che Pier Paolo Pasolini nel '74 aveva scelto come sfondo di alcune scene del suo Il fiore delle Mille e una notte) e con un cast impressionante: Vittorio Gassman, Jacques Perrin, Philippe Noiret, Max Von Sydow, Jean-Louis Trintignant, Fernando Rey, Giuliano Gemma... Ah: per chi se n'è dimenticato, il tenete Drogo, protagonista del romanzo, nel finale del libro è costretto a lasciare la Fortezza proprio mentre i Tartari stanno arrivando, e muore durante il viaggio di ritorno, da solo, in un'oscura locanda, dove arriva a capire la sua vera missione: affrontare la Morte con dignità (mentre nel film di Zurlini il tenente Drogo muore nella carrozza che lo porta in città, sembra per tagliare i costi della scena della locanda).
E fino a qui, la vulgata.
Ora, la rivelazione. Dal materiale ritrovato da Lorenzo Viganò spuntano nuovi particolari su personaggi, nomi e dettagli della trama, ma soprattutto due finali «alternativi». Dagli appunti preparatori del romanzo, risalenti agli anni Trenta, i Tartari non arriveranno mai e Drogo, dopo aver fatto carriera, torna a casa, e in un futuro non precisato riappare addirittura nella fortezza, con il capitano Ortiz. Scrive Buzzati: «Ritorneranno insieme a rivederla la fortezza ma ormai è vuota. Il sistema di difesa è diverso. Vive soltanto il vecchio calzolaio Matteo (figura assente nella versione definitiva del romanzo, ndr), e i tre parlano insieme guardando ancora all'orizzonte da cui non verrà mai nessuno». Un finale, forse, ancora più secco, struggente. Mentre nel trattamento cinematografico, che risale al 1962, ed è lungo 46 pagine, l'epilogo è spiazzante, tra il grottesco, il surreale e il beffardo: Drogo non si ammala, resta nella Fortezza, i Tartari arrivano ma, quando sta per dare un senso a una vita trascorsa in attesa, nell'eccitazione dello scontro imminente, salendo sugli spalti, cade accidentalmente «in una specie di profondo pozzo». E così muore da solo, senza che nessuno se ne accorga, mentre intravede «il frenetico movimento dei soldati lassù che combattono» e «le nuvole bianche che passano indifferenti nel cielo». Una sciabolata che taglia di netto quel poco di senso che era rimasto alla vita.
E per il resto, mentre aspettiamo l'arrivo del film Fortress che la regista americana Jessica Woodworth sta girando in Sicilia, sulle Madonie, territorio di Blufi, con gli attori Jonas Smulders e Geraldine Chaplin, figlia del grande Charlie Chaplin, si potrebbe citare un vecchio ricordo di Giulio Nascimbeni, grande amico e collega dello scrittore: «A Buzzati era venuta un'idea: Se fossi io il regista - mi disse - per i soldati della Fortezza Bastiani non sceglierei una divisa unica, ma tutte le più belle divise della storia purché un po' lacere come accade per le vecchie bandiere. Penso alle divise dei dragoni, degli ussari, dei moschettieri che s'incontrano nelle pagine di Dumas padre, dei Lancieri del Bengala come li ho visti in un film con Gary Cooper... Naturalmente, con le divise, anche elmetti, berretti e mostrine diversi uno dall'altro. Insomma, un reggimento mai esistito ma universale.
Domandai a Buzzati: E che uniforme faresti indossare al tenente Drogo?. Rispose senza esitazioni: Lo vestirei come un ufficiale asburgico perché la vita di Drogo è inutile, ma piena di fierezza». E sembra che parli di se stesso.
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