Nel vorticoso inaugurar di mostre, lo scorso aprile a Venezia, con la Biennale d'Arte degli Stranieri Ovunque di Adriano Pedrosa e le grosse fondazioni a prendersi la scena, in pochi si erano spinti fino a Palazzo Mosto, nel sestiere di San Polo, a vedere «Starting Again», l'intensa personale di Frank Auerbach che per la prima volta tornava in Laguna dopo aver vinto il Leone d'Oro alla Biennale nel 1986. Nell'esposizione, aperta sino a fine giugno, l'artista tedesco-britannico presentava una selezione di lavori figli di cinquant'anni di produzione creativa, tra cui una dozzina di dipinti prestati da collezioni private e di rado esposti. In questi giorni non si può che ripensare a quella pittura vorticosa - così densa e piena di senso, specie se paragonata a tanta altra in circolazione - un'ultima volta in mostra a Venezia: Frank Auerbach è infatti morto l'11 novembre all'età di 93 anni, nella sua casa di Londra.
Celebre per i ritratti e le scene di strada di Camden, dove ha tenuto lo stesso studio praticamente per tutta la vita, Auerbach è stato un maestro della pittura del Novecento e un artista che operava per ripensamenti. Fu lui stesso ad ammettere in un'intervista al Guardian di buttare nel cestino il 95 per cento delle tele appena terminate. Figlio di Max Auerbach, avvocato, e di Charlotte Nora Burchardt, artista, Frank Helmut Auerbach nacque a Berlino il 29 aprile 1931. I genitori morirono nei campi di concentramento, lui si salvò grazie al Kindertransport, il programma voluto dal Regno Unito che accoglieva minori non accompagnati, prevalentemente ebrei provenienti della Germania nazista, sistemandoli in famiglie affidatarie. Auerbach non parlò mai apertamente dell'esperienza: dal '47 diventa a tutti gli effetti cittadino britannico e impara a riversare su tela i suoi stati emotivi. Fin dagli studi alla Saint Martin' s School of Art e al Royal College of Art, nella sua arte fonde caos e ordine: Londra, e ancor più il vivace e alternativo distretto di Camden, sono la sua fonte di ispirazione quotidiana.
Quel suo incedere così intenso sulla tela e quel caratteraccio della pennellata conquistano già negli anni Sessanta le gallerie locali e poi quelle newyorchesi. C'è anche chi lo critica giudicandolo eccessivo, grottesco, persino conservatore: di fatto, la consacrazione arriva a metà degli anni Ottanta quando, insieme a Sigmar Polke, Auerbach vince il Leone d'Oro alla Biennale dell'86 e tutto il mondo (Italia inclusa) si lascia sedurre dalla sua figurazione espressionista. Mosso dall'ossessione di voler fissare l'«immagine giusta» sul cavalletto, l'artista imprime su tela un segno che poi, a fine giornata, gratta via. Il giorno successivo in studio ripete lo stesso gesto, in una sorta di coazione a ripetere in cui ispirazione e insoddisfazione si alternano di continuo fino a creare l'immagine voluta.
Il risultato finale porta a dipinti materici, straziati, cancellati e corretti,
carichi di stratificazioni infinite di colore: quella di Frank Auerbach è una pittura orgogliosamente ingombrante, mai neutra. Del resto, lui stesso amava dire di aver lottato tutta la vita per «imporre ordine nel caos».
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