Favino il sovranista: "Ferrari o Gucci devono essere interpretati da italiani"

Eppure a Venezia hanno convinto proprio i film nazionali più.. internazionali

Favino il sovranista: "Ferrari o Gucci devono essere interpretati da italiani"
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Terzo film italiano in concorso passato qui a Venezia, il film Adagio di Stefano Sollima, regista abituato a lavorare negli Stati Uniti e che sa usare molto bene i generi, sembra dirci qualcosa in più sulle diverse anime del cinema italiano di oggi. L'impressione è che quando il nostro cinema fa film in tutto e per tutto «italiani» e riconoscibili come «italiani» per stile, storie, respiro, un certo compiacimento autoriale - non riesce a convincere del tutto. Quando invece fa film che non sembrano italiani e percorrono con maggiore coraggio la strada del genere, allora fa centro. Esempi. Adagio che è piaciuto molto, sia ai critici-giornalisti che al pubblico, è un solidissimo noir crepuscolare di vendetta e redenzione: Sollima lo ha girato con meno budget ma con la stessa mano con cui in America girò Soldado e qualcuno ha già detto che l'epilogo alla Stazione Tiburtina potrebbe valere i finali di Brian De Palma. E se non fosse per la parlata romanesca degli attori così stretta che per chi vive fuori dal centro-Lazio è più facile leggere i sottotitoli in inglese che sforzarsi di capire Valerio Mastandrea, detto «Pòl Niuman», o Favino, «Il Cammelo» più che un poliziottesco sembrerebbe un crime movie losangelino. Il prodotto è eccellente.

Oppure: Finalmente l'alba di Saverio Costanzo. Lo diciamo come paradosso, ma il quarto d'ora di film dentro il film, il peplum egiziano, quintessenza del cinema di genere, girato come Il gladiatore, è splendido; e anche la ricostruzione degli splendori e delle miserie della Cinecittà anni '50 sta alla pari di Babylon. Tutto bellissimo. Ma quando inizi a salire e scendere, ancora una volta, la scalinata di Trinità dei Monti, pranzi nelle trattorie romane e tua moglie ti fa provare il ragù («Com'è?», «Bono, bono...»), qualche dubbio allo spettatore lo fai venire. Insomma, se in tutti i film italiani non c'è per forza una Rohrwacher è meglio.

O ancora (e qui usciamo dal concorso): quando il nostro cinema si rinchiude fra le paranoie chic nelle ville sulla spiaggia di Sabaudia o le vite grame nei palazzoni dormitorio della periferia di Fiumicino, succedono i disastri (L'ordine del tempo di Liliana Cavani) o i mezzi disastri (Felicità di Micaela Ramazzotti).

E ancora. Comandante di De Angelis. Fino a che il film è un war movie le grandi scene di azione, la ricostruzione del sommergibile, l'epica guerresca, persino la retorica dell'eroe il risultato è ineccepibile. Quando invece regista e sceneggiatore si perdono nelle beghe provinciali antisovraniste, giocano sullo scivoloso parallelo fra naufraghi di guerra di ieri e migranti extraeuropei di oggi, oppure cantano l'elogio del meticciato italiano, allora il film inizia a mostrare i suoi limiti.

A proposito. Ieri Pierfrancesco Favino, uno dei protagonisti della pellicola di Sollima, ha criticato il modo in cui il cinema straniero guarda all'Italia in tema di stereotipi, «che è una storia vecchissima di pizza e mandolino, ma anche di interpretazioni». «I Gucci avevano l'accento del New Jersey non lo sapevate?», ha detto, ironico, citando la produzione di Ridley Scott House of Gucci e il film Ferrari di Michael Mann con Adam Driver nel ruolo del Drake. «Non si capisce perché grandi attori italiani non sono coinvolti in questo genere di film, affidati invece a divi stranieri lontani dai protagonisti reali delle storie, a cominciare dall'accento esotico. Se un cubano non può fare un messicano perché un americano può fare un italiano? Ferrari in altre epoche lo avrebbe fatto Gassmann, oggi invece lo fa Driver e nessuno dice nulla», si è lamentando lanciando la sua personalissima battaglia a difesa dell'identità italiana. Che è una cosa vera e giusta. Il guaio, però, non è tanto che di Gassmann (Vittorio) non se ne vedono in giro.

Ma che parlando di luoghi comuni e stereotipi nazionali - è proprio in uno dei due film passati da Venezia in cui recita Favino che a un certo punto il cuoco, napoletano, comincia a citare tutti i piatti tipici regionali e poi tira fuori il mandolino e si mette a cantare 'O surdato 'nnammurato. Se non vogliamo che gli altri ci vedano così, cominciamo noi a non metterci in posa in quel modo.

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